Spesso quando si parla di malattie del comportamento alimentare si pensa subito all’anoressia e alla bulimia, ignorando l’esistenza di diverse forme attraverso cui si manifestano queste patologie. Una di esse è la vigoressia, o anoressia riversa, malattia che colpisce prevalentemente il genere maschile, ma dalla quale non è escluso anche il genere femminile. Se nell’anoressia c’è la ricerca ossessiva per avere un corpo sempre più magro, nella vigoressia c’è la ricerca ossessiva per avere un corpo sempre più muscoloso. Apparentemente, la vigoressia suscita meno preoccupazione perché l’attenzione verso un’ alimentazione proteica e uno stile di vita improntato allo sport fa credere che sia un comportamento salutare e corretto. In realtà, così non è, perché allo stesso modo dell’anoressia, il ragazzo o la ragazza che ne soffrono cominciano a impostare tutta la loro quotidianità solo ed esclusivamente per realizzare il raggiungimento di tale scopo, risentendone quindi anche la vita sociale, affettiva, lavorativa o scolastica.
Ogni volta che l’attenzione si focalizza solo su se stessi, si arriva poi allo isolamento e all’alienazione da tutto il resto. Ci tengo a precisare che le malattie del comportamento alimentare non hanno una gerarchia prestabilita in cui una risulta più seria dell’altra. Non è il peso, né il cibo ingerito o rifiutato, né l’etichetta cui viene associato il comportamento a determinarne la gravità. Sono tutte malattie che coinvolgono completamente la persona che ne soffre, intaccando sia la sua sfera corporea che quella mentale generando una sofferenza che è simile a tutti coloro affetti da queste patologie, e come tali devono essere curate.
Spesso accade che la famiglia che vive l’esperienza della malattia del comportamento alimentare di un figlio o di una figlia desidera che la sintomatologia possa sparire il prima possibile così da poter ritornare presto alla vita di sempre. Questo lecito desiderio in realtà rappresenta una trappola poiché la malattia porta con se’ un messaggio molto importante che è il messaggio del cambiamento. Nulla infatti può tornare come era prima. La ragazza o il ragazzo che soffrono di una malattia del comportamento alimentare avvertono il bisogno di trasformare ciò che è parte della loro vita. Ricordiamo che queste malattie sono molto complesse perché racchiudono aspetti sociali, culturali, emotivi, relazionali e di conseguenza anche familiari. L’adolescente vive una serie di stimoli che provengono dal gruppo degli amici, dalla scuola, dai mass media, da ideali di immagine estetica che lo portano naturalmente a una crisi caratterizzata dal normale processo di crescita. Quando gli stimoli diventano eccessivi e non trovano un appropriato contesto che li sappia contenere, ecco allora che può accadere di trovare nella malattia del comportamento alimentare una soluzione a quel senso di disagio, disistima e paura di non essere all’altezza delle richieste che arrivano dal mondo esterno. La famiglia, che dovrebbe essere il luogo dell’ascolto e dell’accoglienza, si trasforma agli occhi della ragazza o del ragazzo affetti da queste patologie nel luogo da cui difendersi, il luogo da attaccare. Se da una parte spaventa distaccarsi dalla protezione dei genitori, dall’altra si vuole fuggire da quella presenza costante che viene vista come un ostacolo alla propria indipendenza e identità individuale.
Questi processi, che sono in parte naturali, diventano ancor più complessi quando c’è una malattia del comportamento alimentare perché il conflitto all’ interno del nucleo familiare si fa più intenso. Frequentemente i genitori rimangono colpiti dalla rabbia e cattiveria che i figli rigettano su di loro, con l’intento preciso di ferirli e annientarli. In realtà ciò che desiderano veramente è il cambiamento, che ai loro occhi può avvenire solo se distruggono prima ciò che c’è. Il sintomo alimentare mette in luce questo bisogno di trasformare la modalità di comunicazione e convivenza tra figli e genitori, a cui il nucleo familiare non può certamente sottrarsi. Questo ci fa capire quanto sia fondamentale che la famiglia venga coinvolta nel percorso terapeutico poiché figli e genitori devono costruire insieme una nuova modalità per conoscersi e stare insieme.
Essenziale è intraprendere un percorso di cura efficace e risolutivo. Ma come si fa a trovarlo e soprattutto quali sono gli specialisti a cui rivolgersi? Innanzitutto la famiglia deve essere informata che queste malattie richiedono un percorso terapeutico molto lungo, che va solitamente dai tre ai cinque anni, è impensabile credere di poter guarire in pochi mesi. Un genitore che si trova a dover affrontare la malattia del comportamento alimentare del figlio o della figlia per prima cosa si rivolge all’asl del territorio che dovrebbe essere munita di un centro specializzato per queste patologie e da qui, a seconda della fase della malattia e della storia del ragazzo o della ragazza, si valuta il percorso terapeutico che può essere di tipo ambulatoriale, o, se è necessario, un ricovero in un centro residenziale. Il problema però sorge quando nella regione di residenza questi servizi mancano, e la famiglia, non sapendo a chi chiedere aiuto, si rivolge a professionisti privati che in teoria dovrebbero, seppure a pagamento, fornire il servizio richiesto. Purtroppo, e questo è un tema che spesso abbiamo trattato non solo nei laboratori, ci sono psicoterapeuti e nutrizionisti che non hanno una formazione specifica in malattie del comportamento alimentare.
Stasera nel laboratorio si è molto parlato della figura della nutrizionista e della funzione che ricopre all’ interno di un percorso terapeutico di malattia del comportamento alimentare. Ci sono state testimonianze di genitori che, laddove i figli erano abbastanza motivati, si sono trovati a contatto con approcci nutrizionali non adeguati per la cura di queste patologie. Un nutrizionista che si trova a prendere in carico una persona con una malattia di questo genere non può certamente prescrivere un regime alimentare basato solo sull’ apporto nutrizionale, Sappiamo bene che chi soffre di queste sintomatologie conosce a memoria tutte le proprietà nutritive degli alimenti, e sa bene come abbinare i vari cibi per avere un pasto equilibrato. La persona che soffre di una malattia del comportamento alimentare cerca in realtà qualcuno che la possa finalmente guidare, prendendola per mano e accompagnandola con sensibilità e comprensione, a sciogliere quelle paure così strettamente collegate e intrecciate al cibo. Nel piatto infatti ci sono anche e soprattutto le emozioni. Abbiamo sempre detto che queste sono patologie molto complesse. Il cibo in se’ racchiude significati e simbologie che hanno a che fare con gli aspetti inconsci e primordiali della persona. Il bambino appena nasce cerca subito il latte della mamma, e attraverso il seno materno instaura la sua prima relazione con l’altro. Cibo, relazioni, affetti sono intrinsecamente intrecciati e costituiscono la trama della vita sociale ed emotiva di ognuno di noi.
La malattia del comportamento alimentare prende di mira il cibo proprio per questa sua valenza altamente ricca di significati profondi. Proprio per questo motivo, i percorsi di cura sono soggettivi e vanno progettati in base alla storia della persona stessa. Fondamentale è il lavoro di equipe, senza di esso anche lo psicoterapeuta o il nutrizionista più esperto può far ben poca cosa perché la cura ha bisogno di più figure professionali che lavorano in sinergia tra loro. E altro aspetto da cui non si può assolutamente trascendere, laddove la ragazza o il ragazzo vengono ricoverati in una struttura residenziale, è assolutamente necessario assicurare la continuazione della cura un volta che la permanenza nella struttura termina, costruendo una apposita rete di sostegno intorno al ragazzo/a e la famiglia.
Stasera molti genitori hanno condiviso la propria esperienza, creando un clima di reciproca solidarietà e aiuto diretto. Si è evidenziato anche la problematica che sorge quando un figlio è maggiorenne e non vuole avviare un percorso terapeutico. Alcuni genitori in questi casi hanno fatto la richiesta della nomina di un amministratore di sostegno, che va presentata al giudice tramite un avvocato o un assistente sociale adibito a questo ruolo. Una mamma ha potuto essere nominata amministratore di sostegno della figlia già dopo 14 giorni, tramite un’approvazione provvisoria, che comunque, avendo già un valore giuridico, le ha permesso di intervenire velocemente, senza dover aspettare la chiusura della pratica ufficiale che richiede solitamente dai 60 ai 90 giorni. Sono state tutte informazioni nate dall’esperienza diretta di genitori che si trovano ogni giorno a dover affrontare non solo problemi di gestione della malattia, ma soprattutto, si trovano a cercare con molte difficoltà la cura per i propri figli. Perché non dimentichiamo mai che ancora ad oggi in Italia sono poche le regioni che sono provviste di tutti i servizi e strutture idonee per la presa in carico delle persone che soffrono di malattie del comportamento alimentare. La famiglia si trova spesso costretta, laddove se ne hanno le possibilità economiche, a rivolgersi privatamente. E ancora una volta, ci si trova davanti alla mancanza di diritto alla cura.
La frase della settimana : LA FAMIGLIA SA ESSERE DI AIUTO