Il laboratorio di stasera è stato ricco di spunti di riflessione e condivisioni non facili da
approfondire in un contesto che non sia quello del laboratorio. Si è discusso molto della
sofferenza, soprattutto del confine che esiste tra il dolore del genitore e quello della propria figlia o
figlio che soffre di un disturbo alimentare. Tutto è iniziato con l’input ricevuto da condivisioni di più
familiari che purtroppo si sono trovati a vivere in questi giorni la dolorosa situazione di avere a che
fare con la non conoscenza del disturbo alimentare da parte del personale medico a cui si sono
rivolti. C’è chi si è sentito ancora rispondere che il comportamento della propria figlia non è che il
risultato di capricci, chi ha ricevuto sguardi giudicanti per l’aspetto fisico , chi si è sentita costretta
a rinunciare a un percorso terapeutico iniziato da 9 mesi per intraprenderne uno in sostituzione ad
esso con uno psicologo nuovo. Queste situazioni non dovrebbero accadere. Oltre a non fornire il
servizio di cura appropriato c’è la discriminazione verso queste patologie. È importante fare
qualcosa che vada al di la del reclamo in se’, e a tale proposito si è voluto ricordare l’impegno e
sostegno che ognuno di noi può mettere in atto firmando la petizione http://chng.it/FtSbHR5w
per far sì che che i disturbi del comportamento alimentare possano entrare a far parte dei LEA, i
livelli essenziali di assistenza sanitaria, e ricevere finalmente la dovuta considerazione e la cura
che meritano. Queste esperienze causano un dolore profondo nella persona che soffre di un
disturbo del comportamento alimentare. Non dimentichiamo mai che la malattia, anche se in
maniera non funzionale, è pur sempre una risposta risolutiva a un disagio interno che fa stare
male. Sentire certe parole pronunciate da persone che hanno un ruolo professionale nell’ambito
sanitario, è peggio del ricevere uno schiaffo in pieno viso. Lo schiaffo in un certo qual modo riesce
a destarti, a darti uno scossone, a farti sentire la pelle reagire al contatto della mano che ha
sferrato il colpo. Al contrario, certe parole vanno a minare la poca stabilità rimasta, l’effimera
identità in cui la persona che soffre di un disturbo del comportamento alimentare si è identificata.
Certe parole fanno male perché continuano a far sentire la persona malata invisibile agli occhi
degli altri. La propria sofferenza viene sminuita, non considerata, in certi casi addirittura derisa. La
reazione a tale atteggiamento non può che essere una chiusura totale accompagnata dal
desiderio impellente di abbracciare ancora più forte la malattia procurandosi dell’ulteriore male
fisico per cercare di attutire quel dolore che si sente dentro e sembra lacerare l’anima. Sembra di
vedere un animale braccato dalla paura.
Il genitore che si trova a vivere questa esperienza, prova l’impulso naturale di proteggere la
propria figlia o figlio dal provare certe emozioni. Questo però può essere in un certo modo “
pericoloso” poiché si priva la persona di fare esperienza dell’emozione stessa. Ancora una volta
dobbiamo ricordare l’ importanza di vivere le emozioni, indistintamente dalla loro connotazione
positiva o negativa, poiché permette di avviare il conseguente processo di elaborazione di quello
che si sta vivendo. Spesso si nutre l’idea che la guarigione debba avvenire in un contesto in
qualche modo ovattato, in cui nulla possa scalfire ulteriormente lo stanco sentire dei propri figli. In
realtà, non può esserci guarigione senza il vivere direttamente ciò che accade, soprattutto gli
eventi negativi. La consapevolezza non è mai un processo facile da mettere in atto, se lo fosse,
saremmo tutti consapevoli. E non è nemmeno l’immagine di luce e colori che di solito le viene
associata. Anzi. Per arrivare a veder l’arcobaleno, occorre partire dal nero più assoluto; da lì si
passa alle varie sfumature di grigio per arrivare al bianco. Ma non siamo ancora all’arcobaleno
poiché serve oltrepassare sia il nero che il bianco, che rappresentano poi il pensiero dicotomico
della malattia stessa: il tutto o il niente; il mangio o non mangio.
Il genitore che interviene per proteggere il proprio figlio o figlia dalla sofferenza che sta vivendo in
quel momento, ostacola questo passaggio essenziale. Non si procede più verso l’arcobaleno ma
si rimane invece fermi tra il nero e il bianco. C’è ovviamente una questione importante da chiarire.
Il desiderio di protezione che prova un genitore è un desiderio innato, impossibile da non provare
e proprio per questo non si può assolutamente lasciare che i genitori si assumano il carico della
sofferenza dei propri figli poiché ne uscirebbero entrambi annientati. E allora cosa bisogna fare?
Bisogna chiedere aiuto. Si ma se la propria figlia o figlio non vuole farsi curare? Ancora una volta
non dimentichiamo che il disturbo del comportamento alimentare è arrivato come soluzione a un
disagio, quindi risulta chiaro che la cura significa per loro togliere ciò che fino a quel momento ha
rappresentato apparentemente la soluzione. “E se mi togli la soluzione, di me cosa resta”?
Non è della “cura” che ha bisogno la persona che soffre di un disturbo del comportamento
alimentare quanto di una persona esterna e professionale che la stia ad ascoltare e comprendere,
anche e soprattutto nei suoi silenzi. La persona che soffre di un disturbo del comportamento
alimentare ha bisogno di essere vista. “ Come mai non sorride più? Che cosa ha spento la luce
nei suoi occhi? Che cosa è che la spaventa” ? La persona che soffre di un disturbo del
comportamento alimentare non chiede di essere curata, chiede di essere capita. Questo è
l’approccio al quale un genitore può orientarsi per affrontare con la propria figlia o figlio
l’eventuale tematica di iniziare un percorso terapeutico. Sapere di poter trovare un porto in cui
attraccare. Un porto in cui riposare sotto la guida sicura di un faro che indica la direzione da
intraprendere una volta ritrovato le forze per riprendere il proprio viaggio.
Un papà ha raccontato con viva emozione quanto lui si sia sempre impegnato nel cercare di
vedere la parte sana della propria figlia. Questo lo ha aiutato a non confondere la sua sofferenza
con quella di lei. Anche se sono passati due anni dai momenti critici della malattia, questi ricordi
ancora suscitano in lui forti emozioni per quello che ha vissuto lui e l’ intera famiglia nell’affrontare
il disturbo alimentare. Significative sono state poi le parole che la figlia ha pronunciato durante
una terapia familiare” papà non mi ha mai trattato da malata, e questo mi fa sentire bene”..Queste
parole rivelano l’importanza di non identificare la persona con la malattia poiché questo ne
rafforza il legame distorto. Una mamma ha condiviso una sua riflessione sorta ascoltando le
diverse condivisioni. Ricordando anche lei il periodo di maggior presenza del disturbo alimentare,
non si era mai accorta di quanto la sua casa si fosse trasformata in quel periodo in una struttura
residenziale. Gli orari della giornata erano ben scanditi: accompagnare la figlia a scuola, andarla a
riprendere, tornare a casa e qui, convivenza totale con la malattia. Questa mamma però non ha
mai anteposto la sofferenza della figlia alla sua. Ha sempre tenuto ben distante i confini. E questo
sicuramente ha aiutato entrambe a veder ed elaborare il loro reciproco sentire e far sì che la figlia
si affidasse alla madre. Una ragazza ha condiviso un ricordo affioratole durante il laboratorio. Nei
momenti bui in cui la sofferenza della malattia era prepotentemente presente, lei sentiva il bisogno
di cercare i suoi occhi riflessi nello specchio per ritrovare in qualche modo quel contatto ancora
esistente tra lei e la sua parte più profonda che sentiva di star perdendo. Questi momenti hanno
rappresentato un passo fondamentale per la sua crescita. Un’altra ragazza ancora ha riportato
quanto si senta grata nell’ aver superato la malattia riconoscendo i tanti momenti di sofferenza
vissuti che le permettono ora di comprendere cose che prima non riusciva nemmeno a vedere.
Con emozione ha raccontato dell’esperienza di questi giorni. Accompagnando il suo papà a una
visita medica, ad un certo punto, guardandola con la sua espressione di amore, le ha detto: “non
sono preoccupato di invecchiare perché ci sei tu “. Se da una parte questo l’ha spaventata per
l’inevitabile trascorrere del tempo, dall’altra l’ha riempita di emozione e gratitudine poiché ora lei
può ricambiare finalmente la cura e l’amore che ha ricevuto in tutti i suoi anni di malattia, con
l’impegno quotidiano di trasmettergli la luce e la gioia ritrovata dopo anni di sofferenza.
La sofferenza non è la malattia. La malattia toglie, la sofferenza dona.
Anche i genitori possono riportare quella luce e gioia che il disturbo alimentare ha soffocato e
privato di ogni espressione vitale.
La frase della settimana è: LA SOFFERENZA DONA.
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