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mercoledì 6 ottobre 2021

Il diritto alla cura - Laboratorio del 5 Ottobre

Il laboratorio di stasera ha affrontato una tematica molto cara a chi soffre di una malattia del comportamento alimentare: il diritto alla cura. Sono state molte le condivisioni da parte dei genitori partecipanti e molte le emozioni trasmesse. 

Tra i diversi racconti è emerso quanto ancora manchi una preparazione specifica nelle malattie del comportamento alimentare per le figure professionali come pediatri e medici di base, non solo come formazione diagnostica della patologia ma anche come conoscenza delle strutture di cura presenti sul territorio. Come è accaduto a una mamma residente in Umbria la quale si è trovata ad essere indirizzata dal pediatra della figlia verso psicologi privati generici, quindi senza alcuna specializzazione in malattie del comportamento alimentare, quando la regione stessa è provvista di tutte le strutture e i servizi sanitari necessari per la cura di queste patologie. E questo diventa un fattore ancora più grave quando la diretta interessata è una ragazzina di 11 anni con una sintomatologia alimentare ancora agli albori ma poi divenuta avanzata dall’approccio terapeutico non adatto. Sono storie che accadono e purtroppo anche di frequente, anche in un territorio in cui potenzialmente esiste una buona rete per la cura di queste malattie. 

Alcuni genitori hanno invece dovuto affrontare i cosiddetti “viaggi della speranza”, emigrando in regioni lontane dalla propria per poter assicurare una cura adeguata alla propria figlia o figlio ammalato. Altri ancora invece hanno potuto usufruire dei servizi sul proprio territorio, riscontrando una buona preparazione e conoscenza sia della malattia che dei percorsi terapeutici da affrontare. Per tutte queste storie c’è però un qualcosa in comune: l’assenza iniziale di un sostegno alla famiglia per la sofferenza e il disagio che una malattia del comportamento alimentare crea all’interno di un nucleo familiare. Non ci riferiamo solo alle figure genitoriali ma anche a sorelle e fratelli che si trovano coinvolti a vivere questa patologia come osservatori passivi, privandoli di quel rapporto unico e speciale che si crea e si costruisce quando si è piccoli e si condividono le stesse esperienze e lo stesso contesto ambientale. La malattia cancella tutto, disintegra gli affetti, le relazioni, lo stare insieme. Un vortice che isola e rende impotenti poiché mancano gli strumenti per capire quello che sta accadendo. 

Tenere la famiglia lontano dalla cura è un errore, poiché sia la persona che soffre di una malattia del comportamento alimentare sia il sistema familiare della stessa, hanno bisogno di intraprendere un percorso parallelo per andare a ridefinire quel linguaggio che si è nel frattempo trasformato e che ora comunica solo attraverso il sintomo alimentare. Ne è la prova quando una figlia in struttura riesce a gestire in qualche modo la malattia ma appena arriva a casa, appena si ritrova tra le mura domestiche, questa riprende in tutto il suo vigore. Accade perché è venuta a mancare tra figli e genitori la ricostruzione e il successivo ancoraggio di un nuovo linguaggio, continuando inevitabilmente ad usare lo stesso stile comunicativo proprio della malattia. A questo riguardo un papà ha raccontato di come ad un tratto nella sua vita sia venuto in contatto con una psicoterapeuta del servizio sanitario locale, la quale, con empatia e professionalità, ha saputo accompagnare lui e tutta la sua famiglia verso quelle che erano le risorse insite delle dinamiche familiari, portando alla luce la qualità dei sentimenti e districando così i nodi che rendevano la comunicazione tra figli e genitori distorta e incomprensibile. Spesso una madre e un padre si trovano avvinghiati nel terribile senso di colpa che li blocca nella ricerca ossessiva di trovare la causa che ha generato lo sviluppo della malattia nei propri figli. Se questo processo da una parte è comprensibile che avvenga, dall’altra risulta spesso inutile e controproducente perché oltre a non arrivare a nessuna soluzione, aumenta la sensazione di venir risucchiati ancora di più dalle dinamiche della malattia del comportamento alimentare. Ricordiamo che alla base di queste patologie ci sono più cause: sociali, personali, biologiche, genetiche, familiari, emotive, relazionali, culturali in cui ognuna di esse si intreccia l’una con l’altra. Quindi non esiste un solo motivo per cui ci si ammala poiché si tratta di malattie multifattoriali. Ecco allora che un genitore più del porre attenzione su ciò che può aver causato la malattia, può invece indirizzare le proprie energie verso ciò che è il momento presente, cercando di capire quello che sta accadendo nel qui e ora. Questo lo può aiutare maggiormente a comprendere ciò che la propria figlia o figlio sta vivendo, sentendo, percependo in quel preciso istante, trovando quindi un punto di incontro nella loro relazione. Una cosa importante del lavoro personale del genitore è quello di cominciare a osservare il linguaggio con cui di solito si esprime, poiché le parole che egli usa vanno a determinare conseguentemente il suo modo di comportarsi e soprattutto di guardare. Lo sguardo è un mezzo di comunicazione molto potente per chi soffre di una malattia del comportamento alimentare. Capita spesso che il figlio o la figlia ponga molta più attenzione allo sguardo rispetto alla parola che viene pronunciata. Occorre che tra questi due elementi non ci sia contraddizione o ambiguità perché laddove lo sguardo non rispecchia la parola, le dinamiche sintomatologiche aumentano di intensità. Nell’anoressia si intensifica la restrizione, nella bulimia e binge l’ abbuffata. 

Non dimentichiamo che alla base di una malattia del comportamento alimentare c’è la mancata costruzione di un’identità adulta. La persona che soffre di anoressia o bulimia rimane intrappolata in una fase di crescita legata ancora all’infanzia. Non si trova preparata a divenire adulta e ancor di meno ad accettare un corpo che nel frattempo sta cambiando. Ecco allora che andare a
controllare i processi legati alla sua crescita può rappresentare il suo tentativo di fuga dalla paura di diventare donna o uomo. Rifiutare il cibo o assumerne in abbondanza rappresenta così la modalità con la quale cerca di rimanere aggrappata a quel mondo dell’infanzia che la fa sentire ancora protetta e soprattutto al riparo dall’ambiente esterno che tanto la spaventa. Alla base c’è quindi un processo identitario bloccato nella sua normale evoluzione di crescita. Ecco che quel sano conflitto messo in atto per affermare la propria autonomia non viene più rivolto verso i propri genitori ma si scaglia con violenza contro se stessa, contro quell’immagine di se’ che non corrisponde più a ciò che è stata fino a quel momento. E così, attraverso la malattia del comportamento alimentare si cerca di annullare quel forte disagio e paura nel vedere un corpo che cambia non sentendolo più proprio. E qui ritorniamo al concetto iniziale del diritto alla cura. Non è più possibile accettare percorsi terapeutici superficiali o peggio completamente inadeguati per mancanza di personale qualificato e/o relativi servizi. Come non è più possibile accettare che una famiglia sia lasciata sola, sola ad affrontare la sofferenza e l’angoscia nel vedere una figlia o un figlio che si ammala di una malattia del comportamento alimentare. Sono malattie, e come tali, devono essere curate.


La frase della settimana è: IL DIRITTO ALLA CURA.

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