Precisazioni da parte di Veggie:
A)Quanto scriverò è basato unicamente sulla mia opinione personale. Nessuna valenza scientifica, nessuna valenza professionale, unicamente la mia opinione – opinabile per antonomasia. Ergo, non prendere assolutamente per oro colato quanto scriverò, perché rispecchia solamente quelle che sono le mie personali idee in merito.
B)Ritengo che non esistano “ricette perfette”, e che il percorso di ricovero debba essere assolutamente individualizzato e personalizzato. Paradossalmente, se esistessero sapremmo perfettamente quale iter far seguire ad ogni qualsiasi persona malata di DCA, e saremmo sicuri che al termine di quell’iter la persona starebbe concretamente meglio sotto ogni punto di vista. Non è così, ovviamente, le panacee universali in questo campo penso non ci siano. Quindi, nel rispondere alle tue domande, farò riferimento alla mia esperienza personale, e tutt’al più a ciò che ho visto nelle persone intorno a me, ergo ciò che scriverò è autoreferenziale e perciò non è in alcun modo generalizzabile.
- Penso che i vantaggi delle strutture dedicate (ammesso e non concesso che funzionino in maniera adeguata, ovviamente) siano molteplici. Innanzitutto, la persona ricoverata ha la possibilità di essere seguita quotidianamente e h24 dai diversi membri dell’equipe medica che lavora nella clinica: dietisti, psicologi, psichiatri, medici di medicina generale, il che consente un monitoraggio costante tanto delle condizioni somatiche quanto degli aspetti psicologici, poiché sono dell’idea che la psicoterapia e la riabilitazione nutrizionale, per avere spettanze di successo, debbano procedere di pari passo. Inoltre, una clinica mette a contatto persone che hanno le stesse problematiche e che, se motivate nel percorso che stanno facendo, possono supportarsi a vicenda in maniera tale da avvertire meno il senso di isolamento che spesso caratterizza chi ha un DCA nella sua vita quotidiana: può quindi nascere all’interno del gruppo una sorta di auto-aiuto che si affianca all’aiuto professionale. Un ricovero in clinica può essere inoltre anche un modo per staccare la persona malata da un contesto di quotidianità che in qualche modo favorisce la persistenza della malattia e il reiterare comportamenti sintomatici, ed introdurla in un nuovo ambiente dove durante la degenza vengono forniti strumenti che possano consentire alla persona stessa di adottare strategie di coping diverse da quelle proprie del DCA una volta che, terminato il ricovero, saranno reintrodotte nella propria quotidianità. Infine, la struttura dedicata consente un alto livello di specializzazione: tutti i professionisti che vi lavorano infatti sono altamente settorializzati e mirati al lavoro con persone affette da disturbi alimentari, per cui c’è sicuramente una qualità e un’accuratezza della cura migliore che altrove.
- Non solo “quando”, c’è da chiedersi anche “se”. Il “se” e il “quanto” penso debbano essere valutati da uno specialista che conosce, perché l’ha seguita, la persona per la quale il ricovero viene eventualmente prospettato. Penso che se c’è consapevolezza di malattia e, a maggior ragione, voglia di combattere contro la malattia, il ricovero possa essere fortemente produttivo. Però ritengo che sia in grado di dare input positivi anche in chi è più indietro nel suo “percorso di ricovero”, fermo restando ovviamente che minore è la consapevolezza e soprattutto minore è la voglia di combattere, minore sarà la voglia e la capacità di utilizzare gli strumenti di lavoro su se stesse che vengono messi a disposizione da una struttura. Per il resto, credo che la valutazione debba essere assolutamente individualizzata e molto scrupolosa, perché essendo tutte persone diverse, reagiamo in maniera differente anche a fronte del medesimo stimolo: per cui sta allo specialista la capacità di comprendere se la persona che ha di fronte potrebbe reagire positivamente al ricovero in una struttura specializzata e fruirne, oppure se il rimedio sarebbe peggiore del male innescando nella paziente un rifiuto e quindi un arroccamento ancora maggiore sulle posizioni del DCA. Qui sta all’abilità dello specialista valutare, ovviamente anche e soprattutto ascoltando quelle che sono le volontà a tal riguardo della paziente stessa, e agendo di conseguenza… Ricordando che, anche una stessa paziente, può essere non pronta ad un ricovero in una clinica specializzata in un certo momento della sua vita, mentre può tranquillamente esserlo successivamente.
- A mio avviso, l’unico modo per evitare il ricovero in una clinica specializzata nella prima parte della malattia, è quello di fare in modo che la persona malata sia comunque seguita ambulatorialmente, sia sul piano alimentare che psicologico, con costanza. Penso che i ricoveri coatti (e parlo per esperienza personale) siano molto fini a se stessi… Meglio allora, se la paziente non ha consapevolezza di malattia, iniziare un più soft approccio ambulatoriale, che faccia sentire la persona meno sotto pressione, e che magari può essere convertito in un ricovero franco solo successivamente, quando c’è più collaboratività.
- Anche questo ritengo sia variabile da persona a persona. Ci sono persone che ce la fanno tranquillamente (o, addirittura, meglio) con un approccio non residenziale, altresì ci sono persone per le quali il ricovero rappresenta la miglior strada da percorrere. Molto conta cosa ne pensa la paziente, cosa sente di aver bisogno, quale vede essere la strada più adatta per sé. Generalizzando (per quanto io detesti le generalizzazioni…) direi che un buon criterio per decidere di proporre alla paziente di passare da un regime ambulatoriale a un regime di ricovero sia rappresentato dalla mancata regressione o dall’aggravamento dei sintomi presentati dalla paziente al momento dell’inizio della terapia ambulatoriale. Con tempi variabili sulla base delle condizioni psicofisiche della paziente stessa. E fermo restando, ovviamente, la libertà di scelta della persona malata.
- Il “percorso in entrata” della malattia, per quella che è stata l’esperienza mia e delle persone con cui ho conosciuto e parlato sia durante i miei ricovero, sia tramite blog, è veramente diversissimo da persona a persona, quindi oggettivamente non direi che si possa parlare di “percorso in entrata”. Più analogie, invece, le posso vedere nel “percorso in uscita”: fermo restando anche qui le differenze interindividuali, sicuramente ampissime, una cosa che ho notato e che ci accomuna abbastanza tutte è che l’uscita da un DCA necessita il trovare cose che riempiano la vita e che siano altro dal DCA stesso. In parole povere: occorre cercare di dare più importanza ad altre cose, quali che siano, e cercare poco a poco di costruirsi una vita autonoma al di là dell'anoressia, poiché nel momento in cui si arriva ad avere una vita che compendia numerosi interessi “sani” e positivi, ci si rende conto che l’anoressia non ci serve più poi così tanto. Non penso che questa sia l’uscita tout-court dall’anoressia. Anzi, credo che pur trovando interessi che non hanno niente a che vedere col DCA, si abbiano comunque ricadute più o meno pesanti (per lo meno, questa è stata la mia esperienza). Trovare cose da fare che derogano completamente dall’anoressia non è la bacchetta magica della guarigione né la panacea, ma penso che possano aiutare ad allontanare la testa da certi pensieri ossessivi, nonché a scoprire un angolo di mondo che ci offre opportunità positive che ci possano far sentire che allora vale veramente la pena il cercare di distaccarsi quanto più possibile dal DCA per poterci dedicare ad altro. Trovare un qualcosa che ci faccia sentire che, ributtandoci del tutto nell’anoressia, avremmo qualcosa da perdere. Trovare qualcosa che ci stia veramente a cuore. Perché questo può fare una significativa differenza.
grazie
a presto
Michi
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