Quando la malattia s'insinua nella tua vita, inizi a
credere che per sentirsi vivi si debba sempre e necessariamente passare per il
dolore: se non soffri, sei invisibile. Ecco che allora la vita diventa una gara
a chi sta peggio: più soffri, più ti senti il male
addosso, e più ti sembra di sentirti "viva", più ti nascondi e più ti
sembra di proteggerti, più tenti di svuotarti (mangiando sempre meno, sentendo
sempre meno) e più ti sembra di essere 'potente' e padrona della situazione. TI
SEMBRA... Ma quella potenza in realtà è solo illusoria: uno scudo difensivo, un
MURO che la malattia innalza tra te e il mondo, per proteggerti dai colpi e
dalle colpe (anche e soprattutto quelle inesistenti, quelle che la 'voce'
malata impone di vedere) ma per trascinarti via dalla vita vera verso qualcosa
di ancora più doloroso, un'agonia quotidiana. Quante volte ho sbattuto contro
quel muro nel tentativo di sfondarlo, non capendo che invece il muro va
smantellato un po' alla volta, mattone dopo mattone! Ed è solo quando si inizia
a smantellarlo che oltre quel muro s'intravede l'alba di una vita nuova, la
possibilità di una direzione alternativa, la propria alternativa.
La malattia ti
risucchia in un vortice di rituali ossessivi a cui pian piano ti abitui, al
punto tale che nemmeno ti accorgi più di aver perso il controllo. Per aderire
ad un'ideale di apparente perfezione e di illusoria onnipotenza, ci si ritrova
a nascondersi, a fuggire per rintanarsi nella gabbia delle privazioni, a
sentirsi in dovere di mettersi a tacere e di annullarsi: semplicemente 'IN
TRAPPOLA', ti ritrovi intrappolata in schemi di comportamento rigidi,
inflessibili, logoranti. E ti senti frantumare in mille pezzi per quel
terribile senso di impotenza di fronte alla tua stessa vita, in balia di una
forza che manovra ogni tua mossa, senza lasciare possibilità di replica. Ti
trascini a fatica, ti lasci trascinare dalla malattia verso il buio più
profondo. L'unica
cosa in grado di definirti, di definire la tua identità, sembra essere la
sofferenza che ti porti addosso, che ti porti dentro, scritta nel volto sconvolto
dal pianto che non lascia tregua, nello sguardo spento e offuscato
dalla lente della malattia, che altera e distorce la percezione della realtà al
punto che non riesci più a vedere e a sentire il tuo corpo, o lo senti sempre e
comunque troppo "ingombrante". Vivere il disturbo alimentare è
ricordarsi e al tempo stesso dimenticarsi di avere un corpo, tentare di
ignorarlo, tentare in ogni modo di mettere a tacere i suoi bisogni, riversare
su di esso tutte le proprie paure per (non) dare voce al proprio malessere. Ma
quando quel corpo grida che non ce la fa più ad obbedire, quando urla che le
catene in cui la malattia lo ha imprigionato stringono troppo, ci si accorge di
essere vulnerabili, fragili, tutt'altro che 'potenti'. E una volta che ci si è
scoperti fragili, per non soccombere all'impulso violento e spietato della
malattia, bisogna trovare il coraggio di affrontare il dolore a cuore aperto,
quel dolore che affonda le sue radici più profonde nel nostro passato, nella
storia della nostra vita.
Scoprirsi fragili
costringe a togliersi la maschera dell'invincibilità e a guardarsi
"nudi", impauriti, indifesi all'apparenza, ma per potersi
(ri)scoprire forti anche senza quella corazza che crediamo possa renderci
imbattibili, invisibili, e che protegge ferite profonde; quella corazza che
difende, ma al tempo stesso separa e allontana. E allora ci si rende conto che
la malattia, che nei momenti bui appare come un rifugio sicuro, protetto, in
cui trovare riparo, è diventata in realtà una prigione, una gabbia che isola
dal mondo, soffoca, opprime e oscura ogni luce: ci si ritrova soli, tristi, a
piangere in silenzio, mentre tutto intorno sembra sfuggire e scivolare via…
Poi arriva il
giorno in cui ti fermi, sei costretta a farlo, e d'improvviso ti sembra di non
conoscere più nulla di ciò che ti circonda, di non conoscere più te stessa. Ti
guardi alle spalle e vedi giorni, settimane, mesi, anni volati via e non ti
riconosci più, tutto ti è estraneo. E ti chiedi dove ti sei fermata, dove ti
sei smarrita, dove e quando hai perso la cognizione del tempo e dei fatti, dove
ti sei distratta e HAI LASCIATO SCIVOLARE VIA LA VITA. Le lacrime dietro cui ti
nascondi, scendono a ricordarti che anche tu sei viva, che anche tu provi
qualcosa, sebbene sia solo dolore; a ricordarti che forse così felice poi non
sei stata per il raggiungimento di tutti quei "successi" per i quali,
in nome della legge del dovere, hai lavorato tanto, hai sacrificato tanto,
troppo. HAI SACRIFICATO TE STESSA. E
di tutti quei sacrifici ti sei ritrovata a raccogliere i frutti, ma anche i
cocci.
Con il passare del
tempo ho capito che
continuare a scappare, a fuggire nel tentativo di evitare lo scontro con il mio
dolore, non sarebbe servito a nulla: quel dolore bisogna attraversarlo, dargli
anima e corpo per rimpossessarsi di quella pulsione di vita vera che c'è - c'è
sempre finché c'è vita - in fondo al cuore ma che la malattia impedisce di
ascoltare. Per dare peso a quella pulsione ho dovuto toccare con mano il
"mio fondo", per scoprire che quell'energia ci sarebbe stata
comunque, che non mi avrebbe abbandonata nemmeno nel buio più profondo: se ne
sarebbe stata in un angolino ad aspettare fiduciosa che tornassi a raccoglierla
e a prendermene cura.
La malattia è
vivere sempre 'IN BILICO': sei sempre costretta a vivere 'in sordina', a tarparti
le ali per timore di sbattere contro il muro e spezzarle. Sempre trattenuta,
legata, imbavagliata da quell'istinto intransigente, che non concede nulla, che
ti minaccia, ti condanna, ti "divora" lentamente. E' quell'istinto da
cui diventa poi così difficile distaccarsi e differenziarsi perché nonostante
la sua violenza, quando il buio ti assale appare paradossalmente rassicurante,
protettivo, accogliente. Credo che la vera
sfida nella lotta contro la malattia sia andare contro quell'impulso ormai
dominante che scandisce le tue giornate, per riscoprire il desiderio: il DESIDERIO
DI PERDONARE E DI PERDONARSI, DI FARE PACE CON LA MALATTIA PER POTER FARE PACE
CON SE STESSI, con il proprio corpo, i propri difetti, le proprie imperfezioni,
i propri errori, e ritrovare la fiducia nelle proprie risorse, quella fiducia
indispensabile per tornare ad abbracciare la vita.
Dopo tanto tempo,
dopo tante rinunce, ho capito che l'unico modo per salvarsi, per cominciare a
(ri)costruire una vita più serena, è ACCETTARE DI AFFIDARSI a chi è disposto a
guidarci, DI FIDARSI di chi è in grado di fornirci gli strumenti, le
"armi", per uscire vittoriosi dalla lotta contro la malattia. Così ora,
giorno dopo giorno, nel mio percorso di cambiamento, impegnata in questa
faticosa lotta, sto lavorando per ritrovare quello che ho perso, quello che la
malattia si è portata via, perchè mi ha portato via un pezzo importante della mia vita
senza avere il diritto di farlo, e nessuno potrà più restituirmelo. Sto lavorando
per riconquistare tutti i diritti che mi ha negato, per trovare tra gli
infiniti modi di dare un senso al vuoto che ha scavato, il mio, per poterlo
colmare di parole, sensazioni, emozioni, esseri umani. Sto scoprendo che tra gli estremi
di amore e odio ci sono infinite declinazioni possibili dell'uno e dell'altro,
quelle sfumature che danno un senso alla vita e la rendono degna di essere
vissuta fino in fondo, ogni singolo istante. Sto
scoprendo i limiti e le possibilità che si nascondono dietro il muro della
malattia, per vincere le mie resistenze al cambiamento, trovare la forza di
rialzarmi e tornare finalmente a camminare 'IN EQUILIBRIO', libera dalle catene
e dalle costrizioni della gabbia in cui per anni mi sono barricata. Sto investendo le mie energie per dare
voce, per dare un valore, un peso, a tutto ciò che sento, ciò che penso, ciò
che sono, PER CONQUISTARE LA LIBERTA' DI ESSERE, senza troppe paure e senza
troppi vincoli, SEMPLICEMENTE ME STESSA.
Sandra
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