Le mie vene d’inchiostro sanguinano parole, coltellate sulla carta bianca, scrivono promesse a mezza voce, l’amaro fugace di un ricordo che muore subito in una trama salata. Ti scrivo dall’ordito intricato, dal nostro tappeto…
Imparo a memoria i lineamenti della tua mano, del tuo sguardo incrostato di sogni, speranze. Io e te accoccolate sul tappeto. Cerchiamo di imitare a menadito il passato, come quando ero bambina, come quando ero ancora figlia, vivace e brillante. Come quando eri ancora mamma, bella e severa, fragile e profonda. Come quando i nostri pori, vestiti di pelle d’oca, palpitavano forte. Arrossati. Come quando eravamo vive.
Il tappeto riecheggiava delle nostre voci, dei tuoi schiaffi; imperlato dai miei insulti salati, dal mio dolore che colava a picco, scavando le guance fino al tessuto antico; intrecciandone la trama. Mi ricordo ancora il profumo della sua storia, impigliata ai fili: olezzi di spezie e venditori scaltri dalla pelle scura; le tue gambe agili che danzavano tra i colori marocchini, lo sguardo ammiccante di papà.
Lo vedo ancora, il solco dei tuoi passi nervosi, i tuoi ricci sparsi. Non mi capivi, a volte semplicemente pensavi bastasse socchiudere le palpebre per avere una vita perfetta, idilliaca. Rimanevi così, ad occhi serrati, anche solo per pochi minuti. Assaporavo celata quegli attimi che spillavano verità.
Ho lasciato scorrere gli anni, gustando minuti, ore. Immobile.
Le lancette incavavano cunei rossi in punti ombrosi, chiazzati di scuro. Il mio corpo era l’unico rifugio dai tuoi pensieri invadenti. La tua luce mi fa ancora paura. Quella lama disarmante, impietosa, che denudava ogni imperfezione, ogni angolo incrinato, ferito.
Ti ho visto, sai, provare a leccare i miei squarci, mentre dormivo; le tue nocche premute sul letto, nella trapunta notturna. Piangevi, mamma. In silenzio. E io muta, fingevo un respiro pesante.
Vestiti troppo grandi, i miei contorni sempre più smussati, sempre più aguzzi, freddi. I tuoi timori sempre più sfacciati. Volevo uno spazio, solo un cantuccio segreto, tutto mio. Dove i corpi non devono essere morbidi, pieni di curve. Imbarazzanti. Un rifugio lontano dal tuo amore troppo forte, mamma. Logorante.
Mi sono persa in uno specchio allungato e non sono più tornata.
Il tappeto aveva una chicca di polvere in più. Non sei più entrata nella nostra stanza.
Hai preso un martello un po’ arrugginito; era l’unico in casa. Hai infranto il mio riflesso in milioni di briciole. Mi sono smarrita nei frammenti appuntiti, affilati. Scie rosse sulle braccia, nostalgiche di un respiro tiepido. Il tuo.
Poi, un giorno, ho smesso di sentirti gridare. Ho ipotizzato una tua resa. Forse per una volta, finalmente, appoggiavi la mia scelta.
Ero troppo fragile, come carta velina.
Come cristallo.
Non ero adatta per una cosa così brulicante, travolgente. Non ero fatta per questa vita.
Forse per la prima volta avevi capito che dovevo appassire per smettere di sanguinare o lasciare che la mia cassa toracica aderisse alla pelle, come chiodi.
Sono uscita un attimo, gli occhi esausti di salsedine. Ho scorto qualcosa di diverso sul nostro tappeto. Brividi algidi si annodavano sulla bocca del mio stomaco. Erano i tuoi capelli quelli che fioccavano piano, eri tu, sformata, accasciata su una sedia a rotelle. Erano i tuoi, quegli occhi tracimanti di terrore.
Inaccettabile.
Piena di rabbia ti ho lasciata lì, senza notare le tue labbra seccarsi, assottigliarsi sempre di più. Non mi accorgevo della tua voce. Il silenzio mi si è cucito addosso, una maschera egoista e omertosa.
Ho lasciato traboccare il tuo sguardo in gocce pesanti, piene di rimpianti.
Ti ho lasciata da sola su quel tappeto, mentre le mie ossa dure bruciavano, corrodevano la carne restante.
Ti ho odiata con tutta me stessa, mamma. Ho odiato i palpiti nel mio petto.
Ho incatenato le palpebre, stavolta senza imitarti, senza immaginare altre vite possibili.
Ho annegato le pupille per annaspare nel buio, in un arido niente. Dove non potevi esserci. Dove il tuo amore instancabile non poteva sfiorarmi.
Quando ho districato le ciglia, di scatto, non c’era alcuna differenza. Era davvero tutto nero, senza più sogni, senza i colori, senza voci. Senza più te.
Ho scorto una conchiglia sul tappeto, come quelle che in estate raccoglievamo insieme, sulla spiaggia umida e dorata. Lo sciabordio del mare fresco. Ho pianto al ritmo dei miei battiti perché sapevo.
Avevi preferito rinunciare alla tua forza, al tuo respiro per inchiodarmi con la tua luce vecchia, di supernova.
Hai preferito andare via, senza disturbare. Ho pensato volessi mettermi alla prova, vedere se fossi ancora capace di amare. Amarti.
Ma non c’era più il tuo odore, mamma. Mancavano il tuo ordine impeccabile, il profumo dei trucchi in bagno, l’aroma del caffè-latte a solleticarmi fin sotto le coperte.
Ho urlato.
Ho squarciato quella calma insulsa.
Ho calpestato il nostro tappeto. Trucioli di polvere in una spirale.
Soffocavo, tossivo.
Ho corso fino a non sentire il mio petto sussultare, fino a sanguinare, fino a scorticare pelle, muscoli, ossa, cellule.
Mi sono lasciata cadere, proprio lì, al centro della stanza. Su una macchia del tappeto; mi ricordava i contorni di una tua lacrima. E ho annusato una possibilità, una scintilla.
Ma è sfuggita rapida, in un guizzo. Era un riverbero delle tue ciglia, delle tue iridi. Ne sono sicura.
E così, zaino in spalla, le gambe tremanti, ho inspirato forte. Tutti quei pezzi invisibili, quelle particelle indelebili; il tuo amore.
Ho riscaldato così quella voragine, il mio corpo vuoto che implorava disperatamente pienezza. Me ne sono andata via anch’io, silenziosa. Cercavo i tuoi schizzi di luce che hai sparso per me, mamma.
Sono andata via per ridisegnare un corpo vero, non più imbarazzante.
Per riscrivere il colore roseo della mia pelle, per sprigionare la spuma selvaggia dei nostri ricordi, abbattendo muri, errori, rimpianti. Perfezioni ingannevoli.
Vado via senza mete precise. Ogni giorno un po’ più vera, più viva, più me. Un po’ più te.
Perché l’amore è l’unica cosa che non può morire, che resta.
Tua, Luce.
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