Stasera sono emerse tante tematiche, e anche tante emozioni. Il laboratorio si è arricchito di nuovi genitori, i quali, essendo per loro la prima volta, hanno preferito stare in ascolto. Siccome non sono sorte domande specifiche, si è cominciato cercando di dare un quadro generale di tutti gli argomenti affrontati nei laboratori precedenti, iniziando con il trattare lo spinoso argomento riguardo la cura. Non è sempre detto che i professionisti con cui si viene in contatto siano sempre preparati sui disturbi alimentari. A volte può capitare che manchi una formazione specifica su queste malattie, che vengono classificate come disturbi psichiatrici da curare strettamente con l’uso di farmaci. Sia ben chiaro, nessuno è contrario all’uso farmacologico. Anzi. Ci sono situazioni in cui la persona che soffre di un disturbo alimentare non riesce da sola ad avere la forza necessaria per iniziare un percorso psicologico. Il farmaco in questi casi permette di approcciarsi ad un lavoro interiore personale, un rimedio per così dire temporaneo, o comunque diminuito gradualmente, per far sì che la persona sia in grado di avere gli strumenti e l’energia necessaria per continuare la terapia senza il supporto farmacologico. L’aspetto che non deve mancare in un percorso di cura è l’essere visti nella propria individualità, senza essere catalogati in una malattia che spesso è affiancata a comorbidita’ che inevitabilmente sorgono e fanno sentire la persona richiusa in un quadro di disturbi psichiatrici che l’allontanano dal riconoscere la propria identità al di là del disturbo. C’è bisogno del contatto, che non deve essere per forza fisico. Un
contatto che riporta all’ essere riconosciti nella propria sofferenza. Una sofferenza che usa il corpo er manifestarsi, ma che si nasconde nella parte più profonda e intima della persona.
Come è avvenuto in un laboratorio recente, si è cercato poi di rifocalizzare l’attenzione sull’importanza dello sguardo. C’è uno spazio in cui la malattia non può avere accesso. È quello spazio che la relazione ha creato ancora prima della comparsa del linguaggio della propria figlia o figlio. Si riferisce a tutti quei momenti in cui la comunicazione avveniva attraverso gesti, sorrisi, contatti visivi, in cui ognuno sentiva di appartenere all’ altro. Contro questo tipo di relazione la malattia non può avere presa, e non trovando nutrimento, non riesce ad attecchire. Ma come si fa ad arrivare a recuperare quello sguardo? Indebolendo la forza della malattia. Con quali mezzi?
Incominciando a imparare a differenziare la parte malata dalla parte sana che sono racchiuse entrambe all’interno della propria figlia o figlio. Riuscire a distinguere quando parla la malattia da quando parla la parte sana semplifica e fa capire al genitore come può rispondere a tali linguaggi.
Inoltre, è importante andare a tagliare lentamente il cordone ombelicale tra genitori e figli che nel frattempo il disturbo alimentare ha rafforzato. Chi soffre di queste malattie spesso ha paura di crescere, una paura che viene accompagnata da sentimenti di grande disistima. Si rifiuta di avere responsabilità proprio per non andare incontro alla sensazione di sentirsi incapaci. Così si cerca di rifugiarsi dentro a un corpo non cresciuto o al contrario, avvolto in un involucro ingombrante per proteggersi in qualche modo dal contatto con l’esterno. Ed è qui che il cordone ombelicale viene a rafforzarsi poiché si investe il genitore di ogni responsabilità, mettendosi così al riparo dal pericolo di dover scegliere per se stessi. Cercare di stimolare la propria figlia o figlio verso piccole azioni autonome ( es pagare le bollette, spazzolare il cane, comprare il giornale...) è un piccolo modo per cercare di dare loro un compito e incominciare a renderli indipendenti. Inoltre, è importante anche riuscire a far riemergere quelle passioni che la malattia ha soffocato, ad esempio la fotografia, il disegnare, il creare composizioni floreali....
Si è poi ritornati sul concetto dell’ imparare quotidianamente a distinguere le richieste che provengono dalla malattia dalle richieste che provengono dalla parte sana. Le prime ovviamente non vanno ascoltate, poiché non fanno altro che aggiungere potere al disturbo. Un esempio banale per spiegare questa dinamica può essere la situazione in cui la propria figlia o figlio fa esplicita richiesta che in casa vengano comprati solo determinati cibi perché questo li fa sentire più tranquilli. Che cosa succede di solito? Per quieto vivere, la famiglia accetta tale richiesta. Ma in realtà a chi si ha dato vittoria? Immaginiamo che i genitori invece di acconsentire, si rifiutino e placidamente rispondano che quei cibi non smetteranno di essere comperati poiché sono cibi che non hanno ragione di non esserci e siccome l’ansia è originata dal controllo imperante della malattia, loro non vogliono più esserne succubi. Questo sicuramente scatenerà rabbia, conflitto, portando alla bocca parole offensive e accusatorie, seguite magari anche da porte sbattute. In realtà cosa è appena accaduto? È successo che non si è dato ascolto alla malattia e quest’ultima ha reagito mostrando tutta la sua violenza. Successivamente, una tale reazione porta a delle elaborazioni importanti in quanto si è data dimostrazione che la malattia può essere contrastata; oltre ad evidenziare quanto questa ponga limiti estremi alla propria e altrui libertà. Ovviamente, tali esempi sono generalizzati. Ognuno deve poi valutare la propria situazione personale, il livello emotivo di quel momento. Ma è importante comunque iniziare a fare esperienza nel differenziare le due parti che agiscono spesso in contrapposizione. Senza aver paura del conflitto che si può generare poiché è impossibile che si verifichino dei cambiamenti se tutto rimane uguale e ci si comporta sempre nella medesima maniera.
È stata affrontata anche la delicata questione in cui, durante un percorso terapeutico, si assiste al ritorno di certe dinamiche che si pensava si fossero superate: un aumento delle abbuffate, o della restrizione, o di attività motoria. Spesso quando capita questo è perché in terapia si sta andando ad attaccare qualcosa di importante che fa emergere nella persona un meccanismo di difesa che questa ultima cerca di risolvere riprendendo le dinamiche di controllo dettate dal disturbo alimentare. Ovviamente, questo suscita nel genitore ansia e apprensione che lo induce a mettere ancora più in luce il disturbo con parole del tipo “ ecco, sei ritornata/o a restringere. Non è servito nulla quello che hai fatto. È stato tutto inutile”. Queste parole, oltre a creare nell’altro la sensazione di non essere visto, vanno a bloccare l’elaborazione necessaria per comprendere che si sta mettendo in atto un modello del passato usato per risolvere i conflitti. Da questa importante elaborazione ne consegue la decisione autonoma di assumersi la propria responsabilità, cambiando il modo di gestire le avversità. Anche in questo caso, è fondamentale conoscere e capire il percorso che la propria figlia o figlio sta affrontando. Occorre prestare attenzione a tanti piccoli particolari che si rifanno alla propria storia ed è evidente che in tutto
questo il genitore non può essere lasciato solo. Ha bisogno di avere un sostegno, uno specchio esterno che possa fargli vedere e far comprendere tali dinamiche.
A questo punto si è ritornati all’importanza della relazione tra genitori e figli. Emozionante il racconto di una persona che ha raccolto in questi giorni la confidenza ricevuta da parte di una figlia la quale gli ha riportato la sua sofferenza nell’essere pienamente consapevole di tutto il dolore inferto ai propri genitori e della sua incapacità di mostrare loro il suo affetto. Lo ha confidato attraverso un pianto che si sentiva che proveniva dal cuore. Un pianto che rivelava tutto l’amore che nutriva per la sua mamma e il suo papà. Qui si è collegata l’esperienza da parte di un’altra persona che, avendo vissuto il disturbo alimentare, ha raccontato di quanto la malattia non le aveva permesso per molti anni di accorgersi di tutto l’amore che i suoi genitori cercavano di trasmetterle ma che lei, imbrigliata dentro la malattia, non riusciva a sentire e vedere. Oggi è orgogliosa di esserci riuscita e di constatare quanta bellezza e amore ci sia nella sua vita. Un’altra persona ancora ha voluto portare la sua esperienza parlando del rapporto molto conflittuale con il proprio padre che lei aveva accusato per anni per non essere riuscito a darle la protezione che voleva. Il rapporto con la madre, al contrario, era basato su un senso di colpa per la situazione che si era venuta a creare a causa del disturbo alimentare. Dopo anni di terapia è riuscita a guarire dalla malattia, e anche a sanare i conflitti con le figure genitoriali. Molti anni dopo la guarigione, questa persona si è trovata ad accompagnare suo padre nell’ultimo giorno della sua vita. Lei gli teneva la mano. Lui, con una grave patologia polmonare, non era in grado di parlare, ma non ha
mai distolto lo sguardo da lei, e lì, in quel momento, entrambi sono riusciti a comunicarsi tutto quello che non erano riusciti a dirsi in tutti gli anni vissuti insieme. Hanno comunicato attraverso quel linguaggio che non era fatto di parole, ma che sapeva mettere in contatto due anime che si erano cercate da molto tempo. Quello era stato il loro ultimo e profondo saluto. Poco dopo, il padre chiuse gli occhi per sempre. Prima di andare via, lei gli si avvicinò e vide una lacrima sul viso di lui. Raccolse questa lacrima, se la strinse al petto, sentendo che quello era stato l’ultimo grande gesto e dono di amore di suo padre.
La frase di questa settimana è : L’AMORE RIVELATO.
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