“Perché una persona che soffre di un disturbo alimentare si vergogna?” Per rispondere a questa domanda dobbiamo, come per tanti quesiti che riguardano i disturbi alimentari, cercare di sforzarci di guardare al di là di ciò che vedono i nostri occhi. La persona che soffre di un disturbo alimentare si vergogna di mostrarsi così come è. La malattia rappresenta una debolezza, un qualcosa che va nascosta, è il mezzo attraverso il quale si cerca di avere il controllo su tutto quello che non va nella propria vita. Spesso lo sguardo che una persona sente su di se’ non è uno sguardo comprensivo ma è uno sguardo giudicante, a volte sprezzante, anche derisorio e svalutante. Altre volte ci si vergogna perché ci si sente sporche. Sporche per tutto quello che si riesce a fare col proprio corpo rivelando ancora di più quanto si è deboli, imperfette, inadeguate, senza valore. Sporche perché ci si è lasciate andare a quel “distorto” godimento di piacere che fa sentire non più eteree e impalpabili ma tremendamente corporee, materiali e sbagliate. Ci si vergogna perché un disturbo alimentare è qualcosa che gli altri valutano come una stranezza di una ragazza o un ragazzo che evidentemente ha qualche problema ( sottovalutando il fatto che chi soffre di un disturbo alimentare è consapevole di avere un problema, è consapevole che il suo comportamento non è uguale a quello delle alle altre persone e questo aumenta ancora di più la sua invisibilità e sofferenza). Ma che cosa è la vergogna? È un’emozione. Ed ecco che ritorniamo ad uno dei temi principali che riguarda queste malattie: la gestione delle emozioni. E qui non possiamo non parlare del ruolo fondamentale dei genitori.
È importante fare attenzione alle parole che si è soliti usare quando parliamo perché queste vanno a influenzare i nostri pensieri e il conseguente comportamento. Osserviamo ad esempio il termine controllo, per chi soffre di un disturbo alimentare ne è la caratteristica principale per eccesso o per difetto. Ora, consideriamo le emozioni insieme al controllo: ne fuoriesce la problematica alla base di queste malattie. Proviamo a sostituire il controllo con un’espressione come ad esempio accogliere, gestire, dialogare con l’emozione: acquista subito una prospettiva diversa.
Incominciare ad adottare un altro linguaggio da quello che si usa di solito tra le mura domestiche porta a vedere le cose da un’altra angolazione, aiutando anche la persona che soffre di un disturbo alimentare a percorrere una strada differente nell’interpretare ciò che prova. A volte sembra che questi concetti siano banali, scontati, automatici. Ma così non è. Spesso accade anche che durante i laboratori i temi che vengono trattati facciano sorgere spunti di riflessione e consapevolezza, ma poi, quando ci si trova davanti al proprio figlio o figlia, d’improvviso ci si dimentica tutto rimettendo in atto lo stesso schema di risposta. Pensiamo a quante volte il discorso cibo, attività fisica, peso compare pur sapendo che non si dovrebbe. Perché accade questo? Perché la malattia è subdola. Sa attaccare nel momento giusto, colpendo i punti più vulnerabili dell’intera famiglia.
Una ragazza ha condiviso quanto per lei sia stato importante nel suo percorso di guarigione affidarsi alla competenza del suo nutrizionista perché le insegnasse nuovamente a nutrirsi (pur essendo lei laureata come biologa e quindi sapendo benissimo come si combinando i vari alimenti). Ma lei sentiva il bisogno di una persona esterna alla famiglia che le insegnasse di nuovo a mangiare correttamente. Alimentarsi infatti non vuol dire introdurre meccanicamente del cibo in bocca. Allo stesso modo, il isturbo alimentare non è il rifiutare o abbuffarsi di cibo. C’è molto di più dietro a quel gesto apparente, c’è tutto il significato profondo del nutrimento. Appena nasciamo, la madre nutre il proprio bambino, e insieme ad esso si instaura il legame madre-bambino. L’esperienza di questa ragazza ha evidenziato come sia stato necessario compiere questo percorso con una figura estranea all’ambito familiare. Questo le ha permesso di imparare a nutrirsi in modo responsabile e autonomo. Una madre deve dare nutrimento appena il bambino nasce, ma non può continuare a farlo quando il bambino è adolescente perché questo significherebbe non staccare il “cordone ombelicale”, cosa essenziale per divenire adulti indipendenti. A loro volta, i genitori di questa ragazza si sono comportati da genitori. Il padre aveva il ruolo di padre, la madre il ruolo di madre ma soprattutto padre e madre avevano conservato e protetto il loro ruolo di marito e moglie. Di conseguenza la figlia aveva mantenuto il suo ruolo di figlia. Non era divenuta nei suoi pensieri la rivale della madre o la presunta compagna del padre. Era semplicemente figlia. Questo è fondamentale per non creare invischiamenti familiari. Il disturbo alimentare gioca nel confondere i ruoli e soprattutto nel mantenere intatto il cordone ombelicale perché così agisce più facilmente. Quando colpisce la figlia o il figlio, contemporaneamente colpisce anche il genitore ( come si suol dire, prende due piccioni con una fava).
Una mamma, collegandosi alla tematica nutrizione, ha chiesto cosa potesse significare l’uso di molte spezie da parte di sua figlia che portano poi a degli abbinamenti insoliti. Questo ci riconduce direttamente al discorso iniziale delle emozioni. Non dobbiamo bloccarci davanti a ciò che vediamo ma dobbiamo andare al di là di ciò che si pone davanti ai nostri occhi. Le spezie di solito si usano laddove c’è poco sapore, poco gusto. Il cibo nel disturbo alimentare è la metafora delle emozioni. “Come mai mia figlia sta cercando di insaporire le sue emozioni? Che cosa è che le rende sciape ? Come mai non riesce ad abbinarle in modo armonico tra di loro?” Pensiamo anche a quando si spezzetta il cibo in tante minuscole parti, caratteristica questa tipica dell’anoressia. Sminuzzare il cibo equivale a minuzzare le emozioni. Cosa porta a ridurre in piccoli parti quella emozione impedendo poi di integrarla insieme alle altre? Che cosa blocca l’interiorizzazione di quella emozione dentro di se’? Che cosa è che spaventa?
Spesso anche il genitore ha paura, soprattutto se il disturbo alimentare è accompagnato da forme di autolesionismo. Come soluzione si finisce con il controllare costantemente ogni azione e ambiente frequentato dalla propria figlia o figlio per scongiurare un eventuale pericolo. E questo è umanamente comprensibile. Chi soffre di un disturbo alimentare però vive già ogni momento della propria giornata in un pressante dominio che la persona applica su se stessa. Sentire un’ulteriore vigilanza su di se’ non può che far scattare rabbia, reazioni provocatorie con la inevitabile ricerca di situazioni ancor più pericolose per comunicare il proprio disagio. Un papà ha condiviso quanto abbia giocato favorevolmente l’aver dato fiducia alla propria figlia e quanto questo abbia ridotto la frequenza dell’autolesionismo di lei. Certo, non è stato facile. Ha dovuto affrontare a sua volta la
propria paura, frenando il desiderio di controllo, ma questo ha reso migliore la loro relazione, il loro confrontarsi, il loro stare insieme. Il genitore di solito fatica a pensare che il percorso di guarigione del proprio figlio o figlia possa partire direttamente da lui nell’incominciare a riconoscere le proprie mozioni. Se ci riflettiamo bene, non è poi così assurdo. Le emozioni sono le stesse per tutti gli esseri umani. Nascono e si manifestano fisiologicamente nel corpo di ognuno di noi nella stessa maniera. La persona vive poi individualmente la sua emozione in base al proprio vissuto e sensibilità. Ma uell’emozione non è sconosciuta all’altro. È un qualcosa che accomuna, che lega, che permette di omunicare. Immaginiamo quanto possa essere nutriente un genitore che di fronte al rifiuto o abbuffata di cibo della propria figlia o figlio non vede la malattia ma bensì la paura o la tristezza. “Ti vedo, riconosco la tua sofferenza perché è la mia stessa sofferenza. Non c’ è nulla da fare in questo momento. Stai qui. Stai con questa tua emozione. Non avere paura. Ci sono anche io vicino a te”. Questo è il “linguaggio” delle emozioni, un linguaggio che non usa le parole. Ma perché possano comunicare liberamente tra di loro, occorre che uno dei due riconosca la propria emozione riflessa nell’altro.
La frase della settimana è: LA MIA EMOZIONE È LA TUA EMOZIONE RIFLESSA IN ME.
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