La mia storia è probabilmente simile a quella di tante altre persone che hanno o hanno avuto un
disturbo alimentare.
Io ho sofferto di anoressia nervosa restrittiva per parecchio tempo. È stato molto facile cadere
in questa malattia ed estremamente difficile uscirne.
A 13 anni mi è stata diagnosticata l'epilessia, una malattia che colpisce il sistema nervoso
centrale. Si tratta di un disturbo neurologico, per ora non vi è cura, esistono farmaci che servono
a tenere sotto controllo le crisi che si possono verificare.
È una malattia cronica ancora poco conosciuta e spesso stigmatizzata, motivo per cui al
Gaslini consigliarono ai miei genitori di non dirlo a nessuno. Purtroppo non c'era un percorso
terapeutico rivolto ai giovani pazienti e questo ha creato in me un rifiuto netto della malattia, di
cui però non ero realmente consapevole.
Mi ritrovavo catapultata nella mia vita precedente senza però avere le stesse energie e
nemmeno lo stesso tempo a disposizione. Spesso dovevo fare controlli settimanali a Genova,
quindi mantenere lo stesso ritmo tra studio, corsi, attività sportive e danza, mi era molto difficile.
Inoltre i farmaci mi provocano vari effetti collaterali. Provavo un forte senso di frustrazione e
di rabbia. Il neurologo non mi considerava, parlava solo con mia mamma, mi sentivo come un
pacco sballottato tra un controllo e l'altro.
Non poter parlare con nessuno, non poter esprimere il mio malessere, mi faceva sentire come se
avessi qualcosa di cui avrei dovuto vergognarmi. Mantenere questo segreto, per me, era un peso
enorme da portare. Mi sentivo diversa, a disagio ma fingevo che fosse tutto a posto.
Ansia e rabbia crescevano a dismisura ed è proprio lì che è arrivata l'anoressia a darmi
"sostegno" e forza illimitata. In compenso mi ha privato delle cose più importanti: sentimenti,
emozioni, senso del pericolo, amore per la vita, ha creato una barriera tra me e gli altri.
Vivevo una vita all'apparenza appagante ma come se non fossi più io a viverla veramente,
quasi fossi uno spettatore della mia vita. La malattia mi dava la percezione di avere tutto sotto
controllo, in realtà era lei ad avere il controllo su di me.
La mia salvezza è stata il ricovero in un centro specializzato in DCA, quando ormai avevo già 24
anni. Credo di essere una delle pochissime persone ad aver fatto questa scelta autonomamente.
Ammetto però, in tutta onestà, che era fortissima la dicotomia che vivevo dentro di me.
Da un lato erano troppi gli anni di malattia, desideravo liberarmi da questa gabbia di riti,
iperattività, regole, compulsioni ed ossessioni che non mi davano tregua e che mi creavano
un'enorme sofferenza, tanto che a volte mi sembrava di impazzire.
Dall'altro questo era il modo che avevo trovato per gestire la mia vita e ciò che affrontavo, mio
malgrado ormai non potevo più farne a meno o almeno così credevo.
Penso che la decisione di ricoverarmi sia stata il frutto di un processo che era già in atto da un
po'.
Il tutto è partito da una telefonata che ho fatto a un numero verde di un'associazione trovata
sul web, in una serata veramente al limite della disperazione. Per la prima volta qualcuno
comprendeva veramente ciò che stavo dicendo e vivendo. La ragazza che aveva risposto alla
mia chiamata mi ha rassicurato, dato speranza e nome e numero di telefono di una terapeuta
che poi mi avrebbe chiamato. Il giorno dopo sinceramente speravo che non mi chiamasse più
nessuno, io avevo altre priorità.
Purtroppo la mia salute non è mai stata una delle mie priorità, soprattutto quando mi sono
ammalata di anoressia. Lo studio, il volontariato, il lavoro qualsiasi cosa aveva la precedenza. Io
non pensavo di avere una malattia o di mettere in pericolo la mia salute, per quanto strano possa
sembrare. Dicevo spesso: "Io sto bene", "Io non ho bisogno di mangiare". Per me era quella la
mia vita, la mia "normalità".
La terapeuta fortunatamente mi chiamò e si dimostrò molto brava e paziente. Io ero estremamente elusiva e scostante anche successivamente quando andavo sporadicamente in
terapia, perchè mi sembrava inutile o di perdere tempo prezioso.
Invece tutte queste cose sono state piccole crepe che piano piano hanno minato il muro che la
malattia aveva creato tra me e il mondo circostante.
Ho persino partecipato ad un seminario sui DCA, sempre su spinta della mia terapeuta, era
un patto che avevamo fatto una volta tornata dal mio viaggio in America. Consisteva in una
settimana con i terapeuti che lavoravano in un centro specializzato in DCA.
Lì l'incontro con un'altra terapeuta, le sue parole dure, dirette, l'esperienza fatta durante il suo
gruppo, mi hanno dato uno scossone. Ho iniziato a vedere che qualcosa stava cambiando
dentro di me, sentivo dopo anni qualcosa. Nonostante tutto però la mia ostinazione a non
mangiare non diminuiva, nemmeno in quel contesto.
A fine seminario ci fu proposto di iniziare un percorso in questo centro per la cura dei DCA. Il
seminario era stato organizzato in una cascina nel verde ed era un esempio in piccolo delle
attività che venivano svolte all'interno del centro stesso.
Io con l'entusiasmo e l'incoscienza che mi caratterizzano dissi: "Portatemi adesso, se torno a
casa non ne avrò più il coraggio". Mai avrei pensato che avrei fatto un percorso della durata di un
anno, ne tanto meno quanto mentalmente, fisicamente ed emotivamente impegnativo avrebbe
potuto essere.
Oggi ringrazio per la fermezza, le regole, la rigidità, l'isolamento dal mondo esterno e dagli affetti
che mi furono imposti. Tutto aveva una funzione precisa ed è così che mi hanno salvato la vita.
Io purtroppo ero arrivata ad uno stadio in cui parlavo solo della mia malattia e delle mie
ossessioni, ero più malattia che me stessa.
Nel centro sono riusciti piano piano a recuperare sempre più la mia parte sana. Si sono
relazionati con me, non con la mia malattia. Non mi hanno mai fatto sentire una persona malata,
ma mi hanno aiutato a comprendere che dovevo farmi curare, perchè avevo una patologia seria.
È stato un percorso completo, su diversi fronti, in cui i progressi di corpo e mente andavano
monitorati di pari passo, nel pieno rispetto dei miei tempi. Mi hanno insegnato ad ascoltarmi, a
comprendere le mie emozioni e a gestirle. Mi hanno rieducato alla vita normale, a riconoscere
e a non sottostare alle regole malsane della malattia. Ho riacquistato autostima e sicurezza
in me perché mi hanno concretamente dimostrato, attraverso varie attività, che avevo buone
potenzialità. Ho compreso cosa volevo veramente fare della mia vita e chi ero, perchè ormai non
lo sapevo più.
La terapia con i miei genitori era volta a ristabilire un rapporto sano con loro. Con mio papà
abbiamo fatto un bel percorso, si è consolidato un buon rapporto. Mio papà mi ha spiazzato,
perchè prima della terapia non avevamo un rapporto vero, è stato un bel regalo. Mio papà mi è
stato di grande aiuto e supporto anche una volta dimessa.
Con mia mamma invece è stato più difficile, lei non riusciva ad accettare e ad elaborare molte
cose, continuavano a crearsi scontri accesi, nonostante la mediazione del terapeuta.
La vera prova, per me, è stata una volta uscita dal centro. Con il mio terapeuta di riferimento
all'interno del centro avevamo fatto un piano, a cui già avevo iniziato a prepararmi qualche mese
prima.
Essendo maggiorenne, dopo aver trovato un buon lavoro, sono andata a vivere da sola. Nei
weekend ritornavo nel centro per il monitoraggio e la terapia.
Il lavoro nuovo era piuttosto impegnativo e andare subito a vivere da sola era una bella sfida. È
stato cruciale programmare bene il mio percorso dopo la dimissione.
La vita vera sovrasta di stimoli e di situazioni che se non vengono bene elaborate possono
creare problemi, soprattutto appena usciti da un percorso intenso come avevo fatto io. Il centro
invece è un ambiente protetto, dove ogni emozione viene soppesata ed analizzata quasi in
immediato.
Successivamente la continuità della terapia è stata molto importante per scardinare via via ogni pezzetto della malattia che riaffiorava a seconda di ciò che affrontavo. Talvolta è stato
piuttosto complicato, lavoravo moltissimo, mi sono trasferita più volte e il tempo era difficile
da trovare, ma non ho ceduto. Nonostante tutto ho avuto delle ricadute ma non ho mai dovuto
fare altri ricoveri. A volte mi sono sentita un fallimento ma ho poi compreso che è stato tutto
propedeutico alla mia guarigione. Talvolta gli errori insegnano di più dei successi e comunque
vanno accettati, fanno parte della vita.
Con il mio terapeuta si è creato un rapporto di forte fiducia, affetto e stima reciproca, non mi
sono mai sentita sola e ho sempre saputo di poter contare sul suo appoggio.
I miei genitori che ruolo hanno avuto? Hanno riacquistato il ruolo di genitori. Quando potevano
mi venivano a trovare e cercavamo di passare del tempo di qualità insieme. Ritornando in
famiglia talvolta si sono ripresentate le vecchie dinamiche, le incomprensioni che si sono
radicate in anni di malattia sono dure a morire, ma ho capito che molto dipende anche da me.
Aver costruito negli anni un'identità più forte, matura e consapevole mi ha reso meno suscettibile
e meno vulnerabile.
A volte avrei preferito maggiore sostegno e comprensione da parte dei miei, anche se so che
sicuramente hanno fatto del loro meglio. I genitori sono esseri umani, come tutti, possono
sbagliare anche in buona fede, ferire e ritrovarsi spaesati e non li si può condannare per questo.
Ho metabolizzato che il sentire e il modo di pensare dei miei genitori è completamente diverso
dal mio, motivo per cui spesso non ci capiamo. Questo però non mette più in dubbio il bene
reciproco che proviamo, cosa che succedeva sistematicamente durante la malattia.
Se mi guardo indietro mi rendo conto che il loro atteggiamento in fondo mi ha spinto a prendere
in mano la responsabilità della mia guarigione e della mia vita, forte del fatto che avevo a fianco
un buon terapeuta che ha sempre creduto in me e a cui sarò sempre eternamente grata.
Sono una persona serena, dopo 10 anni di terapia, posso dire che sono guarita veramente.
Per troppi anni ho pensato che non sarei mai guarita o che avrei dovuto continuare a gestire
il sintomo, invece mi sbagliavo. Ho imparato ad amarmi, così come sono, ad accettare i miei
limiti e le difficoltà che a volte l'epilessia mi presenta ancora. Ammalarsi non è mai una scelta
ne una colpa e non ci rende persone di minor valore, ma ad un certo punto dipende da noi come
decidiamo di reagire a ciò che ci accade.
L'anoressia era il mezzo per anestetizzare il mio profondo dolore: la non accettazione
dell'epilessia e il senso di colpa per essermi ammalata. Era anche funzionale per gestire tutte le
altre sofferenze che avevo accumulato negli anni, per l'incapacità di ascoltarmi e di conseguenza
di esprimere chiaramente i miei sentimenti.
Compresa e metabolizzata la radice del mio problema, grazie alla terapia, mi sono liberata
totalmente. L'anoressia non ha più avuto senso di esistere nella mia vita e ha finalmente lasciato
spazio alla vita vera, alle emozioni e ai sentimenti.
Durante la malattia non avevo paura di essere amata, al contrario lo desideravo profondamente.
Avevo paura di sentire, di non essere in grado di gestire le mie emozioni e di sembrare debole.
La gabbia della malattia era una protezione, una corazza che teneva lontano gli altri, all'interno
però c'ero io che volevo tanto essere amata ed accettata per ciò che ero.
Ora che la gabbia non c'è più provo una forte gratitudine e una grande emozione per tutto
l'affetto che riesco finalmente a sentire e a ricevere. Non è segno di debolezza, è il bello della vita
e del vivere appieno ogni momento senza paura del giudizio per essere se stessi.
Barbara
Grande! 💗
RispondiElimina❤❤
RispondiEliminaSpero che mia figlia di 13 anni, ricoverata in una clinica per dca, trovk la tua stessa forza
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