Mi chiamo Alessia, ho 23 anni e vivo a Brescia.
La mia storia di disturbo alimentare è iniziata a 11 anni in modo graduale con l'arrivo del menarca: era l'8 marzo 2009, ricorrenza del giorno della donna. Proprio il mio diventare donna è ciò che mi ha portato a vedermi in modo diverso.
Attorno ai 13 anni non avevo ancora vere e proprie mestruazioni ma continue emorragie abbondanti e dolorosissime, che mi facevano pensare che il mio corpo fosse qualcosa che non potevo più controllare. Non capivo cosa mi stesse succedendo, quello fu di fatto un evento traumatico. I miei cambiamenti fisici avevano smosso in me un modo più severo di guardarmi e non mi apprezzavo. Avevo iniziato a pensare che fosse il cibo il mio più grande nemico, subito dopo il mio corpo, che non voleva stare a una minima regola di quello che era previsto dai libri o dagli standard estetici della società. Il continuo flusso di sangue rappresentava simbolicamente il sanguinamento di una ferita interiore, ma io pensavo che togliendo un po' di cibo dal piatto avrei alleggerito anche quel peso che mi portavo dentro: cercavo di risolvere esteriormente un problema che partiva da dentro. Infatti dentro di me vivevo un profondo disagio emotivo. Non riuscivo ad integrarmi nella nuova classe pensando di essere “sbagliata” e non riuscivo a trovare il mio posto, tanto meno me stessa. La percezione distorta della mia fisicità non mi faceva sentire mai “abbastanza” secondo i miei standard di perfezione che applicavo duramente a tutto ciò che mi riguardava. Provavo costantemente una sensazione di vuoto profondo e opprimente, sentivo che dentro di me c'era qualcosa che nonostante i miei sforzi mi risucchiava sempre in un vortice di dolore, lacrime e solitudine. Passavo ore in camera mia, da sola, a piangere, sempre cercando di nascondermi. Talvolta il malessere che provavo mi faceva “uscire” dal mio corpo facendomi sentire come un'abitante di quelle membra che si muovevano da sole e io rimanevo a guardare dai miei stessi occhi ma come una terza persona.
Nonostante tra quell'estate e l'inizio del liceo avessi preso in mano il mio dolore e iniziato per mia volontà un percorso psicologico, il solo soffrire di un disturbo alimentare mi faceva sentire in colpa verso i miei genitori e mio fratello (molto più grande), per la sofferenza che stavo portando loro.
Loro avevano già vissuto un dramma, “il vero dramma”: nel 1988 mio fratello Stefano morì a soli tre anni di leucemia, e quello che stavo creando io secondo loro era solo frutto del mio egoismo, ma io mai avrei voluto far loro del male. In tutto il percorso della mia malattia non sono mai riuscita comunicare con la mia famiglia, soprattutto con mamma e papà. Mamma piangeva, ma lontano da me. Papà non capiva, e si arrabbiava. Nemmeno ora se ne parla... Quello che mio papà cercava di fare, per risolvere la cosa a modo suo, era farmi mangiare. Quello che provavo in quei momenti a tavola era dispiacere: non potevo mangiare quello che aveva preparato per me e mangiare non avrebbe guarito il mio dolore ma avrebbe fatto crescere il suo. Il suo impormi di mangiare era visto da me come un modo per farmi stare alle sue regole, che secondo i suoi schemi mi avrebbero salvata. Ma in quel momento avevo bisogno di seguire le mie regole. Purtroppo, più mi veniva imposto di mangiare e meno mangiavo, più mi ribellavo e più volevo stare sola.
Il mio atteggiamento era un modo implicito di chiedere disperatamente un dialogo con i miei genitori. Tante volte avrei voluto sentire un “come stai?” che arrivava invece solo da un compagno di classe. Il fatto che fosse un mio coetaneo esterno alla famiglia a parlarmi e cercare di capire il mio malessere mi ha magicamente fatto vedere che io ancora ero degna di essere amata nonostante le mie crepe. Volevo essere ascoltata e finalmente qualcuno mi vedeva e capiva che delle volte avevo bisogno di fermarmi e piangere magari, perchè andava tutto un po' troppo veloce per me... e infine ho scoperto che potevo anche piacere ed innamorarmi :)
Piano piano, con l'aiuto psicologico, sono riuscita ad alleggerirmi abbandonando i comportamenti nocivi per me e mangiare un po' di più. Inoltre la danza, che ho sempre praticato, ha giocato un ruolo fondamentale nella mia riabilitazione. Ho iniziato a vedere cosa il mio corpo mi permetteva di fare, piuttosto che la forma che avesse. La perfezione fisica a cui ambivo era diventata la ricerca del movimento perfetto, il mio corpo la possibilità che mi permetteva di arrivarvi.
Oggi il mio corpo è ancora un mezzo importantissimo che mi permette di vivere mille esperienze attraverso tutti i suoi canali che sono connessi alla mia psiche ed alle mie emozioni, che poi rivivo nella mia arte. Ho imparato invece a comprendere modi di comunicare diversi, come quelli dei miei genitori e della mia famiglia, di cui nemmeno mi sentivo più parte. In questo senso conoscere la mia nonna paterna da vicino è stato illuminante. Capire le origini di un linguaggio e chi ha educato mio papà mi ha aiutato a sentirmi più vicina a lui. In più apprendere la storia della mia famiglia (questa volta sia dalla parte materna sia paterna) mi ha aiutata a capire meglio l'identità della stessa. Conoscere meglio la cronologia precedente permette di ri-conoscere i lati che si sviscerano nel tempo, e dà la possibilità ai suoi protagonisti di avere un'identità, qualcosa di più grande di cui sentirsi parte, e questa era una cosa di cui avevo disperatamente bisogno. Tutt'ora con tutte queste informazioni cerco costantemente di tenere vivi i ricordi ed il senso di appartenenza all'interno della mia famiglia, ma anche di trovare sempre punti di incontro tra consapevolezza, sensibilità e futuro.
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