Quante volte capita a un genitore che ha una figlia o un figlio che soffre di un disturbo alimentare di sentirsi dire : “ mi dispiace, ma sua figlia/ o non è abbastanza motivata/o alla cura. Torni quando ci sarà questa motivazione”. Ma cosa vuole dire in realtà questa affermazione? Tutto e nulla. Ovvero, è cosa assai difficile che una persona con un disturbo alimentare abbia realmente desiderio di intraprendere un percorso di cura, soprattutto quando la persona in questione è minorenne.
Chi soffre di questa malattia, in particolare nelle prime fasi, non la vive come un ostacolo ma come la soluzione ad ogni problema. Il disturbo alimentare diviene così una sorta di stampella senza la quale la persona non sarebbe in grado di camminare. E’ impensabile che la stessa persona voglia disfarsi di questo mezzo che per lei rappresenta l’ unica modalità con il quale trovare appoggio e sostegno. Di conseguenza, è abbastanza ovvio che mostri opposizione, un’ opposizione che non è verso la guarigione ma bensì verso il cambiamento. La persona quindi si trova a non voler lasciare andare il disturbo alimentare e tutto questo va esplorato per comprendere che cosa è che spaventa così tanto da far ergere questa resistenza, e tutto ciò richiede tempo, professionisti specializzati e denaro.
Capiamo bene che se consideriamo un ambiente di sanità pubblica, vengono a mancare le possibilità di attingere a tali risorse e quindi si declina il tutto sul piano della motivazione, come se fosse la persona a doversi in qualche modo adeguare alla terapia e non la terapia che debba adeguarsi alla persona e alla sua storia. E da qui può capitare di sentirsi dire: “mi dispiace, ma sua figlia/ o non è abbastanza motivata/o alla cura. Torni quando ci sarà questa motivazione” Tutto questo getta nella disperazione la famiglia che, non conoscendo appieno le dinamiche del disturbo alimentare ne’ tantomeno alcune possibili problematiche organizzative sanitarie, finisce con l’attribuire la “colpa” di una stabilizzazione della malattia alla mancanza di volontà della propria figlia/o. Ma un disturbo alimentare non è mai causato, ne’ tantomeno alimentato, da una non volontà da parte della persona che ne soffre. Centra ben poco la volontà quando si parla di un disturbo alimentare, poiché spesso dietro vi è la paura di vivere, insieme alla sofferenza che ne deriva, che induce la persona a rifugiarsi dentro a un disturbo alimentare. Per fortuna però ci sono anche strutture adeguate e dottori che conoscono bene questa malattia e sanno affrontarla non solo con le cure appropriate ma anche con un approccio umano che è indispensabile in queste patologie. Infatti, affinché una cura possa far effetto occorre che si venga a creare fiducia e affidamento verso il proprio terapeuta e la propria nutrizionista.
Come ha riportato una mamma, la fiducia con l’equipe è fondamentale, non solo per la persona che soffre di un disturbo alimentare ma anche per la famiglia stessa. Dalla diretta esperienza di questa mamma, da circa due mesi la figlia si trova ricoverata in una struttura e non c’è serata che non sia caratterizzata da telefonate intrise dal pianto e dalle suppliche per ritornare a casa. Pochi giorni fa, durante un incontro in cui erano presenti tutta l’equipe della struttura e la famiglia al completo di questa ragazza, all’ennesimo tentativo di supplica di tornare a casa, questa mamma si è schierata completamente con l’equipe. Questo ha sortito un effetto molto forte sulla figlia, che improvvisamente ha visto davanti a se’ la debolezza della malattia. Il disturbo alimentare infatti, non è poi così forte come vuol far credere, ma anzi, diviene assai debole se viene smascherato nel suo sporco gioco manipolatorio. Alla fine, la ragazza ha ringraziato la mamma per non averla assecondata nella sua ossessiva richiesta. Ora è consapevole che il no non era diretto personalmente a lei, ma alla malattia.
Un’altra mamma ha condiviso un accaduto simile. La psichiatra e la terapeuta le hanno sempre detto che quando riceveva le telefonate piene di pianti e suppliche da parte della figlia, doveva con calma rispondere con un : “ ti voglio bene.... ma io con la malattia non parlo, poiché a parlare in questo momento non sei tu”. E questo in effetti ha poi migliorato la vita ad entrambe. La figlia ha smesso di fare telefonate secondo la modalità di supplica, e la madre ha smesso di passare notti in bianco perché preoccupata e angosciata di quelle comunicazioni. Inoltre, questa mamma ha raccontato un ulteriore passaggio importante avvenuto in questi giorni. La figlia, rivedendosi in un video girato un anno e mezzo fa, ha confidato di essersi spaventata nel vedersi in uno sguardo in cui non si riconosceva e attraverso il quale non vedeva nulla di se stessa. Anche lo sguardo ha un ruolo importante in un percorso di cura. Lo sguardo sa rivelare molto più di tante parole.
Lo sa bene una ragazza che, raccontando la sua esperienza personale, ha riportato quanto durante la malattia faceva fatica a riconoscere lo sguardo di amore che è sempre esistito da parte dei suoi familiari. In quel periodo, era come se si fosse rinchiusa nella gabbia dorata che rappresenta bene la metafora del disturbo alimentare. E sono stati proprio gli sguardi di persone a lei estranee, ma che conoscevano bene il disturbo alimentare, che l’hanno in un certo senso spronata a uscire dalla gabbia dorata. Queste persone erano riuscite a vederla al di là di ogni etichetta che la identificava come se fosse lei solo un disturbo alimentare. Questo le è servito come stimolo per ritornare a chiedere aiuto ai dottori che l’avevano seguita e a cui lei non aveva mai dato la giusta attenzione fino ad allora, cominciando finalmente ad affidarsi a loro.
È bene sottolineare che nessun dottore possiede la bacchetta magica che porta alla guarigione. Lo stesso dottore può andare bene per una persona e non per un’altra. Sono tante le variabili che intercorrono nel rapporto di cura. Però, è anche vero che le figure terapeutiche hanno il compito di creare il più possibile un ambiente accogliente di ascolto, comprensione, dialogo, empatia. La parola empatia è utilizzata così tanto da perdere quasi valore, ma è, al contrario, un principio cardine. Empatia, entrare nel pathos, nel sentimento dell’altro. Solo così può avvenire il sentirsi visti e riconosciuti, e quando una persona che soffre sente arrivare su di se’ uno sguardo simile, comincia la vera cura. Quello sguardo nutre, riempie, dona linfa vitale. E permette alla persona di far emergere la voglia di ritornare a rimettersi in gioco, intraprendendo finalmente il cammino della guarigione, fidandosi completamente in chi ha saputo donarle quello spazio di accoglienza e riconoscimento.
Quindi, il personale medico da una parte e la famiglia dall’altra, sono indispensabili nel percorso di cura di una persona che soffre di un disturbo alimentare. La famiglia è importante che diventi un’alleata dell’equipe terapeutica per far sì che non vada ad alimentare le dinamiche della malattia. Perché questo accada, occorre che ci sia coinvolgimento e collaborazione da entrambe le parti. Ogni piccolo passo fatto va a porre un tassello di quello che è il puzzle della propria storia, ma una volta che ogni elemento è finalmente incastonato, è ancora incompleto. Affinché il puzzle possa essere ben compatto e solido, occorre andare a incollare le varie parti. Questo collante è dato dalla rete di relazioni che sono fondamentali per creare unione e collegamento. Ma ancora, il puzzle non è terminato. Serve che l’intera tela possa essere contenuta dentro ad una cornice, e questa cornice, che delinea i margini e contiene e’ rappresentata proprio dalla famiglia. Ognuno di noi, senza la cornice della famiglia, perde il significato della propria storia.
La frase della settimana : SE MANCA LA FAMIGLIA, MANCA IL SIGNIFICATO DELLA PROPRIA STORIA
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