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giovedì 3 giugno 2021

Il confine tra la malattia e la vita reale - Laboratorio del 1 Giugno.

 Il laboratorio di questa sera ha ripreso tematiche affrontate più volte, e questo fa riflettere su quanto sia difficile per un genitore dover convivere e gestire la malattia del comportamento alimentare del proprio figlio o figlia. Il laboratorio avviene a cadenza quindicinale, ma i genitori sanno che possono usufruire del servizio di sostegno dell’associazione anche durante gli altri giorni della settimana. 

In questo periodo sono state sempre più le telefonate dei genitori che si trovano a dover gestire i momenti di convivenza stretta col sintomo. Genitori di figli maggiorenni che si trovano all’oscuro di tutto quello che avviene nel percorso psicologico e nutrizionale dei propri figli, e non sanno interpretare i sintomi che si manifestano sotto i loro occhi: “ avrà mangiato veramente quello che le ha indicato la dietista? Come mai continua a non avere il ciclo? Non è che ha bisogno di qualche integratore? Come faccio a sapere se quello che sta facendo è giusto se nessuno mi dà informazioni ?...”
Tutte queste domande sono ragionevolmente lecite. Sfido qualunque genitore che ama il proprio figlio o figlia a non porsele. Il problema è che non si arriva a nessuna risposta o soluzione se non quella di veder accrescere l’ansia dentro di se’ per non avere il controllo di ciò che sta accadendo. Stasera abbiamo ricordato la metafora dell’iceberg. Soffermarsi a guardare la punta dell’iceberg, ovvero il sintomo, non aiuta perché impedisce di prendere in considerazione altri dettagli che sono al contrario fondamentali. Infatti l’attenzione va rivolta verso quei piccoli passi che la propria figlia o figlio sta mettendo in atto:“ Sta riprendendo in mano progetti che aveva abbandonato? Ha ripreso a frequentare le sue amicizie? Ha cambiato il modo di vestire? Comunica maggiormente in casa?....” Sembrano dettagli banali e di poco conto ma in realtà non è così. La guarigione non è data dall’assenza improvvisa dei sintomi. Non è come l’avere una malattia qualsiasi che basta fare la cura prescritta dal medico per avere un miglioramento definitivo. Purtroppo il percorso è molto lungo e richiede tempo. 

Spesso i genitori sono preoccupati nel vedere la resistenza che i figli hanno verso la cura; ma non è la guarigione ad essere rifiutata quanto il cambiamento. Chi ha una malattia del comportamento alimentare vuole guarire ma allo stesso tempo, non vuole abbandonare il sintomo. Non perché non desidera curarsi, ma perché si è spaventati dal dover vivere senza quelle sicurezze che comunque la malattia sa dare. Un genitore questo lo comprende benissimo a livello razionale, ma non a livello emotivo. Una delle grandi difficoltà che un padre e una madre devono affrontare è il convivere per lungo tempo insieme alla malattia quando anche loro desidererebbero una guarigione immediata. Tutto questo è stato molto faticoso da gestire nel periodo della pandemia, e ad oggi ne vediamo le conseguenze. 

Molti genitori, soprattutto quelli di figli maggiorenni, si sentono abbandonati a se stessi perché oltre a non essere coinvolti personalmente in un percorso di cura, sono lasciati fuori da quello che è il piano terapeutico dei propri figli. Più volte stasera è emerso il concetto dell’importanza di poter parlare e confrontarsi sulla malattia poiché da soli è difficile capirne le dinamiche intrinseche. La malattia stringe in una morsa stretta e soffocante tutti i membri del nucleo familiare. Si rimane intrappolati in quelli che sono gli schemi patologici che portano a squilibri e sofferenza. Quante volte accade che un genitore cerchi di creare in casa un ambiente il più protetto da tutti quelli stimoli che potrebbero scatenare reazioni di conflitto. Ecco allora che si cerca di comprare solo determinati cibi, di cenare a determinati orari, di acconsentire alla mezz’oretta di cammino. Questo accade perché si è convinti che creando un ambiente il più tranquillo e sereno possibile, possa favorire un atteggiamento migliore verso la cura, ignorando che l’agire in questa maniera significa diventare complici della malattia. Non bisogna avere paura dello scontro, della porta sbattuta, del piatto gettato a terra, della violenza verbale. Questa non è che la manifestazione chiara ed esplicita della difficoltà nella gestione delle proprie emozioni e non può essere altro che materiale utile su cui lavorare nella stanza del terapeuta. Se tutto rimane sempre tranquillo e sotto controllo, su che cosa mai si può lavorare? Sul sintomo? Certamente, però, torniamo a ripetere che il sintomo non è altro che la punta dell’iceberg. Quindi ben vengano gli scoppi d’ira, gli oggetti buttati a terra, i graffi autolesionistici. Certo, assistere a tali scene non è facile ne’ piacevole né tanto meno se ne esce indenni in veste di genitore. E ancora sottolineiamo l’importanza di parlarne, di condividerne le esperienze, di permettersi di far emergere ciò che più preoccupa. 

Il laboratorio è anche questo: il luogo dove si può svuotare un poco il proprio zaino e ripartire più leggeri. Spesso la famiglia non riesce a staccarsi dall’ etichetta di anoressia o bulimia che nel tempo si è  involontariamente appiccicata addosso alla propria figlia o figlio. Non si riesce più a veder altro se non quella identità. E questo non aiuta nessuno. Una ragazza ha raccontato di quanto a lei sia stato utile ricevere lo sguardo di quelle persone che per la prima volta l’avevano guardata per quello che era e non per quello che era scritto su innumerevoli fogli diagnostici. Quello sguardo l’ha aiutata ad abbandonare a sua volta quelle lenti distorte che le avevano fatto credere per anni di essere soltanto l’incarnazione dell’anoressia. Invece no. Lei non era la malattia. Sembra tutto banale quello che stiamo dicendo. Eppure sono concetti basilari per ritrovare se stessi. 

Ma come si fa ad aiutare un genitore ad abbandonare quello sguardo etichettante? E come si fa a far sì che i figli possano percepire che in quegli sguardi c’è amore e cura? Bisogna incominciare da se stessi. Spesso accade che la famiglia abbia smesso di guardarsi. Tutto si è andato a concentrare solo ed esclusivamente sulla malattia. Il pensiero fisso per una madre e un padre è la guarigione della propria figlia o figlio. Così ci si trova da una parte col genitore che è ossessionato dal : “ Devi guarire! Devi guarire!”, e dall’altra parte abbiamo il figlio o la figlia che a sua volta è ossessionato dal : “Non voglio guarire! Non voglio guarire!” In mezzo c’è la malattia che come un joker si diverte a cambiare le carte in tavola. Ecco allora che diventa importante ritornare a ritrovare quello spazio vitale nella propria vita per dare l’esempio pratico di come si fa. Non basta più dire che bisogna prendersi cura di se’, occorre mostrare come ci si prende cura di se’. La vita fa paura. Ci si illude che sia più facile starsene rintanati nella gabbia dorata della malattia. “ mamma /papà. Vieni anche tu qui dentro con me. Non mi abbandonare . Stammi vicino, stai con me”.... “ No figlia/figlio mio. Io in quella gabbia non ci entro. Perché la vita non è lì dentro. La vita è qui fuori. E il mio compito è farti veder che non c’è nulla da temere a stare al di là’ di quella gabbia.” Solo parlando, solo confrontandosi si riesce a comprendere il confine che separa la metaforica gabbia della malattia dalla vita reale. 

La frase della settimana: IL CONFINE TRA LA MALATTIA E LA VITA REALE

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