Che cosa può fare un genitore quando una figlia che soffre di una malattia del comportamento alimentare inizia una convivenza e contemporaneamente interrompe il suo percorso di cura?
È una domanda che solleva molti aspetti da osservare. Quando una persona che soffre di una malattia del comportamento alimentare decide di mettere in atto un progetto come quello di condividere la propria vita con il partner, è tentata di abbandonare il percorso di cura psicoterapeutico e nutrizionale intrapreso fino ad allora poiché crede di non averne più bisogno, visto che in quel momento sta vivendo un’apparente luna di miele. La stessa luna di miele che si vive con il sintomo alimentare agli inizi della malattia. Infatti, quando non si è raggiunto un equilibrio stabile, è facile che si possano creare relazioni basate sulla dipendenza. È assai frequente che la persona che soffre di una malattia del comportamento alimentare tenda a trattare le persone nella stessa maniera in cui lei tratta il cibo.
Ritornando alla domanda iniziale, se la figlia o il figlio, in questo caso maggiorenne, ha smesso di partecipare agli incontri di psicoterapia e di nutrizione previsti nel suo programma di cura, a livello decisionale un padre e una madre non hanno purtroppo molta voce in capitolo. Questo però non vuol dire che bisogna affidarsi alla buona sorte e sperare che tutto vada bene. Non è così che si affrontano le difficoltà. Probabilmente, la persona in questione sta vivendo un momento in cui si sente felice della scelta fatta, le sembrerà di aver trovato la soluzione al suo disagio interiore, comincerà a fare nuovi progetti e le sembrerà di aver finalmente dato una svolta definitiva alla sua vita. Il che potrebbe anche essere vero, se non fosse per la rinuncia alla psicoterapia poiché questo denota che in realtà si è momentaneamente proiettato la dipendenza dal rapporto col cibo nel rapporto con l’altro. Momentaneamente, perché in seguito le due dipendenze incominceranno a convivere, trasformando la luna di miele in due gabbie: la gabbia del cibo e la gabbia della relazione col partner.
A volte accade che in una situazione del genere la persona coinvolta allontani o cerchi di evitare qualsiasi tipo di contatto con la sua famiglia originaria, proprio per distaccarsi da quello che rappresenta il suo passato e quindi evidenziare ancora di più la scelta trasformativa messa in atto in quel periodo della sua vita. Si viene così a creare una situazione in cui un genitore, oltre a vedere la scelta azzardata della figlia o figlio si trova contemporaneamente ad essere rifiutato ed è inevitabile cadere in uno stato di ansia e preoccupazione difficile da gestire in modo autonomo. In questi casi, c’è bisogno che il genitore chieda un sostegno psicologico per se stesso, perché le dinamiche che emergono possono creare stati depressivi o di agitazione in cui è difficile trovare una soluzione da soli. Senza pensare che in una condizione simile, diventa impossibile poter avviare una comunicazione costruttiva con la propria figlia o figlio. Inoltre, nonostante i tentativi di evitamento messi in atto nei suoi confronti, è importante che il genitore non attribuisca questi a qualche sua ipotetica colpa. Torniamo a ripetere che la famiglia deve togliersi di dosso questa etichetta che il contesto sociale e culturale le ha affibbiato per anni. Certo, la famiglia perfetta non esiste, ma dobbiamo sempre pensare che laddove si agisce per amore, risiede sempre la risorsa, che va riscoperta e ricalibrata per trovare il suo giusto allineamento.
È frequente che un genitore pensi che non potrà mai essere felice finché il proprio figlio o figlia soffre di una malattia del comportamento alimentare. Come già detto in altri laboratori, non si comunica solo con le parole. Anzi. Sappiamo quanto queste malattie agiscano attraverso un linguaggio simbolico che spesso si nutre di sguardi, di gesti, del non detto. Ed ecco allora che quel desiderio che si credeva di aver ben taciuto in realtà viene trasmesso, caricando il proprio figlio o figlia della responsabilità della felicità genitoriale. Questo per dire che quando si ha a che fare con una malattia del comportamento alimentare occorre abbandonare qualsiasi tipo di aspettativa, soprattutto quelle a breve termine, come il credere che basti avviare il percorso di cura per vedere presto i risultati. Purtroppo non è così. Anzi. I tempi di guarigione sono lunghi, condizione sempre difficile da accettare per un padre e una madre. Si vorrebbe ritornare a quella che era la vita prima del sintomo, ma anche qui dobbiamo ricordarci che niente capita per caso. E il sintomo infatti è arrivato con una sua precisa funzione. Certo, non è facile comprendere questi processi, richiedono un lavoro personale che coinvolge tutti i membri della famiglia interessata. Innanzitutto queste malattie costringono a rivedere le modalità di comunicazione. Il sintomo
stesso rappresenta la diretta provocazione di un sistema comunicativo che non funziona più. Per ricostruire un nuovo linguaggio condiviso da tutti ci vuole tempo, perché dapprima si è costretti ad imparare il nuovo lessico messo in atto dalla malattia stessa.
Come è emerso più volte, la difficoltà maggiore sta nel riuscire a comprendere chi realmente sta parlando quando si è di fronte alla propria figlia o figlio. A livello razionale sappiamo che la malattia del comportamento alimentare è prima di tutto una malattia mentale, ma nella pratica facciamo fatica a comprendere che occorre distinguere la parte sana da quella malata. Essendo una malattia che coinvolge la mente, resta invisibile, per cui si fa fatica a scorgere queste due polarità. Non è come vedere un braccio o una gamba rotta. In automatico li si vede e non viene da chiedere alla persona dolorante di fare qualcosa per camminare o muoversi. Davanti a una malattia mentale spesso questo non accade. Si tende a credere che la persona quando parla sia sempre la stessa, ma così non è, perché con una malattia del comportamento alimentare il modo di ragionare e di pensare non è sempre uguale. Infatti a parlare a volte è la parte sana e a volte la parte malata. Essere in grado di intravedere questa differenza non è facile perché il confine tra le due è molto sottile. Ma arrivare a riuscire a distinguere chi realmente in quel momento sta comunicando nella relazione, permette di saper tenere testa alla malattia quando è questa ad essere presente. Raggiungere tale intento significa andare a ridurre il potere manipolatorio che essa esercita, producendo l’effetto di trasformare quel imperante monologo interiore che la malattia instaura con la persona che soffre di questa patologie. Mediare il monologo interiore ha un significato importante perché vuol dire incominciare ad avviare un dialogo. È quando una persona che soffre di una malattia del comportamento alimentare incomincia a dialogare con se stessa, si è avviato il vero percorso di cura. Quindi se il sintomo da una parte complica la relazione, dall’altra permette di mettere in gioco tutto il sistema familiare, affinché quegli sguardi resi sfuggenti dalla malattia possano di nuovo tornare a incrociarsi per riconoscersi in quel linguaggio comune che nasce e si nutre dell’amore puro e incontaminato che esiste tra genitori e figli.
Frase della settimana: IN UNA MALATTIA DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE CHI È CHE
PARLA?
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