“Per capire chi sei ricorda
da dove vieni”…
Mi ha sempre colpita questa
frase poiché ritengo che guardarsi indietro, soffermandosi su ciò che è stato,
non deve essere occasione di turbamento, in virtù del rievocare sofferenze e
stati d’animo negativo, ma ha il suo senso laddove aiuti a ricordare chi si era
e da quali grandi battaglie si è venuti fuori. Tutto ciò porterà a vivere il
presente e il futuro con più forza e determinazione. Se in passato sono stati
superati grandi “mostri”, è certo che si ha la forza tale per affrontare e
vincere anche altri che potrebbero ripresentarsi sul proprio cammino.
Fatta questa premessa, è ora
di scrivere di Crisalide.
Un nickname scelto da una
ragazzina di 11-12 anni quando cominciava a utilizzare il web e le varie
piattaforme virtuali. Una scelta, la sua, fatta non casualmente: voleva credere
di essere nei suoi anni più difficili, quelli della costruzione dell’identità,
quelli di preparazione alla vita per poter poi, non troppo in là nel tempo,
spiccare il volo e riuscire a trasformarsi in quella che il suo cuore
desiderava.
Cosa desiderava intimamente
Crisalide?
Vedere e respirare amore
attorno a sé, nutrirsi di questo sentimento vitale, puro, genuino e spontaneo
scevro da ogni tipo di ipocrisia e di “maschera”. In particolare, per essere
più concreti, lei voleva vederlo dalle persone con cui passava più tempo: i
suoi genitori. Invece, la realtà era completamente differente e cosa ancora peggiore,
era sempre stata quella da che lei poteva averne memoria. Litigi continui,
offese, parole denigratorie e a seguire pianti della persona più debole
emotivamente della coppia (la madre) e lunghi e pesanti silenzi: era questo ciò
di cui doveva nutrirsi tutti i giorni Crisalide. Inoltre sua madre, per ovviare
al suo disastrato rapporto con il marito, oltre che usarla come valvola di
sfogo, (a tal proposito, Crisalide ha poi capito che l’errore più grande di un
genitore è invischiare il proprio figlio intromettendolo nei suoi problemi
coniugali), incentrava ogni sua attenzione su sua figlia, tanto da chiuderla,
come si suol dire, in “una campana di
vetro” inibendone le relazioni e contagiandola con tutte le proprie preoccupazioni.
Intanto gli anni passavano.
Crisalide si avvicinava sempre più alla maggiore età. Piuttosto che fregarsene
e pensare a divertirsi e a godersi i suoi anni migliori, come una qualsiasi
altra adolescente avrebbe fatto, manteneva la sua profonda e spiccata
sensibilità verso i problemi altrui. Non riusciva a fare finta di niente e non
farsi coinvolgere dalle situazioni negative circostanti, come le suggeriva ogni
volta la sua psicologa che arrivò anche a definirla: la “paladina” di una
famiglia “patologica”.
Crisalide non era però debole
e fragile come si poteva pensare, anzi. Aveva coraggio e determinazione visto
che, attraverso quello che è poi stato il disturbo alimentare conclamato, ha
saputo fare emergere i problemi profondi ed esistenti attorno a lei fino ad
allora taciuti e nascosti.
Il desiderio di controllo
del clima circostante portò Crisalide a controllare i suoi impulsi e le sue
emozioni e la frustrazione, data dall’impossibilità di nutrirsi di dolcezza,
armonia, amore, fu inconsciamente convertita nella mancanza di appetito e,
quindi, nel non nutrirsi a sufficienza di cibo. Anche il cibo più buono, di cui
fino a qualche tempo prima era golosissima, non le importava e lo rifiutava.
Questo comportamento mandò i genitori in tilt. Sua madre ancora di più le dava
amore morboso con atteggiamenti di compatimento che non le erano poi davvero di
aiuto. Suo padre pensava che la giusta soluzione fosse rimproverarla quando non
mangiava abbastanza oltre che minimizzare ogni sintomo fisico lamentato dalla
ragazza.
“Che stai a fare sempre a
letto? Non hai niente, sono solo tue fissazioni! Possibile che non sai farti
manco un’amica? Vedi se pensi ad uscire!”
Tutto ciò faceva ancora più
male a Crisalide. Lei aveva bisogno di tenerezze, amore, non di certo di
materialismo (le prelibatezze che suo padre le faceva trovare quasi
quotidianamente) e di frasi che la sminuissero. Per contro, sua madre le
diceva: “Non pensare a tuo padre, quello non ti capisce” e implicitamente le
faceva capire che solo con lei a casa fosse al sicuro e protetta. Insomma una
dicotomia di pareri che la mandavano in totale confusione. (Ecco cosa succede
quando manca totalmente un accordo e una veduta comune tra i genitori).
In lei subentrarono i sensi
di colpa perché credeva che le discussioni quotidiane dei suoi genitori fossero
soprattutto a causa sua (non che prima, come precedentemente scritto, non ci
fossero!).
Dopo svariati ricoveri e
visite mediche per i disturbi fisici incorrenti e segnali di un non stare bene
psicologico prima che fisico, qualche medico cominciò a parlare di anoressia.
Termine che però venne da subito categoricamente negato e allontanato dai
genitori. A Crisalide, invece, non interessava tanto dare un nome al suo star
male quanto stare meglio e perché no cambiare aria.
E fu così che quando la psicologa
di riferimento le prospettò la possibilità di andare in un centro per Dca a non
pochi chilometri di distanza, lei accettò di buon grado. I genitori molto meno:
sua mamma perché non riusciva a pensare di poter stare lontana da sua figlia
(la sua àncora di salvataggio), suo padre perché sopraffatto da vergogna (cosa
dovevano pensare ora colleghi di lavoro, parenti e affini che mia figlia è
anoressica?), timore (ora sono costretto anche io a mettermi in discussione nei
numerosi colloqui con gli psicologi che mi attendono) e forse anche un briciolo
di stanchezza (il viaggio verso una città sconosciuta da fare circa due volte
al mese).
Con il senno di poi,
l’entrata al centro si è dimostrata essere stata la vera salvezza. Colloqui
settimanali da nutrizionisti, dietologi o psicologhe varie, effettuati in
passato, erano risultati fini a sé stessi e avevano sortito un beneficio
limitato considerando che poi Crisalide non sapeva gestire al meglio la sua
vita a casa. Doveva cambiare ambiente!
Il centro risultò essere
l’occasione per socializzare e per sentirsi davvero a casa grazie alle strette
relazioni con le altre ragazze (provare lo stesso tipo di dolore avvicina) e la
comprensione che gli operatori le dimostravano. Breve parentesi: purtroppo
sulla sua strada alla ricerca di qualcuno che potesse farla stare meglio, nei
suoi anni di malessere, Crisalide ebbe a che fare con medici che avevano
sminuito il suo stato interpretandolo come capriccio o eccessiva ansia.
Ritornando alla vita nel
centro, per Crisalide non fu però tutto liscio, per lo meno nei primi mesi.
Trovarsi a tu per tu con i
pasti (troppo eccessivi per lei) da dover finire e con tante regole da
rispettare non fu affatto facile. In compenso l’acquisto di forze fisiche e lo
scemarsi dei disturbi fisici, con cui prima doveva quotidianamente combattere,
erano per lei un risultato incredibile! Stava ritornando a vivere o forse
viveva davvero per la prima volta. Finalmente si “sentiva”, comprese di essere
capace di “farsi amiche”, di essere divertente, simpatica e non sempre
malinconica e depressa. Imparò ad esprimere le proprie emozioni e a conoscersi.
Tra le varie attività del centro amava tantissimo l’ippoterapia e il contatto
con gli animali. Il suo percorso nel centro
terminò. Il ritorno a casa la spaventava, chiese, infatti, timidamente agli
educatori di allungare la sua permanenza lì ma le fu risposto negativamente.
Era giunto il momento di vivere fuori facendo tesoro di ciò che aveva
conquistato.
Aveva messo su parecchi
chili e la cosa non le dispiaceva anzi! Si vedeva più bella e, soprattutto,
poteva ritornare a correre, a fare lunghe passeggiate, faticose salite, tutte
cose che possono sembrare scontate ma che per lei non lo erano. Poteva avere
maggiore concentrazione, insomma, in una sola parola, poteva cominciare ad
ESSERE.
Anche se in realtà, si
accorse subito che le mancava un’altra cosa: il nutrimento per la sua anima. E
fu così che pochi mesi dopo si ritrovò a rivedere quella che era stata la sua
religione acquisita passivamente. L’abbandonò per tuffarsi in un’autentica e
libera relazione con Gesù senza la presenza di automatismi, schemi religiosi e
tradizionalismi. Da quel momento e tuttora, può fare affidamento alla fede in
un Padre celeste. Nel Vangelo, non a caso, si trova scritto: «Non sono i sani che hanno bisogno del
medico, ma i malati». E la giovane donna era “malata” di amore!
A distanza di anni, come è
oggi Crisalide?
Si è trasformata in una
timida, molto impacciata e ancora inesperta farfalla. Il suo volo si
contraddistingue sin da subito per molte cose.
E’ un volo fatto di
desiderio di provare quei sentimenti per un ragazzo che in adolescenza non
aveva potuto vivere, di sperimentare emozioni, di non aver paura di essere
donna (gioisce ancora all’arrivo del menarca mensile visto che per anni era
scomparso), di riuscire a pensare più a se stessa e meno a quello che la
circonda.
La timida farfalla si sta
ancora formando, spesso cade, vorrebbe cambiare qualcosa di lei, prega che ogni
residuo sentimento di rabbia, per ciò che è stato e che ancora non è come
vorrebbe (un’altra consapevolezza
raggiunta è che gli altri non è detto che cambino soprattutto se non hanno
voglia di farlo e quindi di chiedere aiuto come Crisalide ha sempre fatto),
possa spegnersi lasciando spazio solo ed esclusivamente alla consapevolezza che
tutto ciò che è accaduto e accade, anche e soprattutto di negativo, ha un suo
senso e serve a diventare persone migliori.
Sta tuttora comprendendo
come, gli atteggiamenti dei suoi genitori che l’hanno ferita, non siano stati
frutto di cattiveria. Il più delle volte si trattava di amore dato in maniera
sbagliata. Inoltre ha compreso che chi non sa amare nella maniera giusta (e
quindi senza fare danno) è perché a sua volta non l’ha mai visto fare ed
imparato.
In questo volo ha scelto di
laurearsi come educatrice: “Anni fa
ero io nella condizione di dover essere curata, a breve desidero fortemente
assumere, invece, le vesti di educatrice per poter “prendermi cura”. Da una
parte, con la gratificazione nel cuore verso quegli “angeli custodi”
(educatori) che mi hanno aiutato a riprendere in mano la vita e, dall’altra,
con la consapevolezza di possedere una marcia in più per infondere messaggi di
guarigione e di speranza: perché fuori dal tunnel c’è la luce e la vita è un
dono che merita di essere vissuto!”- è quanto riporta la sua tesi tra i
suoi ringraziamenti finali.
Vola sempre più in alto farfalla,
comprendendo di essere molto di più di ciò che credi e di ciò che gli altri
possono dirti. Ama e lasciati amare ancora di più.
Il dca è un mostro, è una prigionia,
un’illusione. Porta a credere di farti stare bene ma in realtà ti imprigiona
ogni giorno di più, ti annulla. Non sei forte quando sai fare a meno del cibo,
sei forte quando chiedi aiuto e non hai paura del cambiamento. Uscire dal
tunnel si può!
Alessia La Notte
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