Mi piace ogni tanto premere il pulsantino “rewind” della
mia vita per poter rivedere quei momenti che sono stati per me il terribile
presente da cui scappare.
Mi sento un po’ ridicola per aver considerato una vittoria
una semplice crema al caffè presa dopo una colazione sostanziosa, mi sembra
patetico ritenere un passo avanti un piccolo cioccolatino a metà mattino, mi
pare una sciocchezza aver gioito tanto per un biscotto dopo pranzo, mi sento
una grande stupida per essermi esaltata tanto per non aver fatto i soliti
esercizi quotidiani. Razionalmente però, ora, comprendo che ogni cosa che ho
fatto -per quanto piccola essa fosse- è stata rilevante nel mio percorso di guarigione.
Ho riflettuto tanto prima di prendere le patatine fritte al ristorante, ricordo
di aver perfino tremato per aver ordinato una pizza farcita, ho LETTERALMENTE
pianto di gioia quando a fine giornata mi sono accorta di essere riuscita a non
fare nemmeno un po’ di attività fisica. Ho urlato fortissimo, ho gridato fino a
piangere, mi sono graffiata i polsi fino a sanguinare, per non dover sentire i
mostri nella mia testa che mi dicevano che non andavo bene, che facevo schifo e
che non ero “abbastanza”. Sono crollata, ci sono stati giorni in cui non
riuscivo nemmeno più a vedere uno spiraglio di luce e quindi tornavo ad
accasciarmi per terra, al fianco di quel mostro. In certi momenti ho lasciato
che mi schiacciasse, per cui mi sono ritrovata a buttare nel cestino quel
biscotto “in più” o a rinchiudermi in una stanza buia a fare gli addominali,
sola con i sensi di colpa ed il sentimento di essere sporca.
Mi sono sempre sentita un peso. Era un peso la mia
celiachia scoperta tardi, ero un peso per la mia madre-allenatrice in casa e
per la mia allenatrice-madre in pista, ero un peso per le mie amiche a scuola,
ma soprattutto ero un peso per me. Mi sono sempre trovata bene col mio corpo
così longilineo e snello, però ad un certo punto si è frantumato un anello
della catena che mi garantiva un briciolo di equilibrio. Il mio nuovo
passatempo era diventato contare le calorie che ingerivo e poi bruciarle. Ho
bruciato tanto, ho bruciato tutto.
Ho iniziato col peso, poi sono passata alle amicizie e a
qualsiasi tipo di rapporto, ed infine la mia passione, il pattinaggio. In ogni
situazione cercavo un aspetto da rendere “malato”: al mattino mi facevo
lasciare da mia madre lontana da scuola così da poter camminare, facevo gli
addominali mentre mi lavavo i denti dopo ogni pasto, bevevo acqua freddissima
od uscivo con addosso vestiti leggeri per lasciare che il mio organismo
utilizzasse tutte le -poche- calorie per scaldare quelle quattr’ossa che
iniziavano a farsi sporgenti e dolenti. Ancora addosso ho un livido che mi
percorre tutta la schiena, come segno di tutte le volte in cui mi sono trovata
a fare esercizi fisici assurdi nei bagni di casa dei miei nonni in occasione
dei pranzi di famiglia, o di un qualsiasi ristorante sconosciuto.
Ho pianto. Ho pianto tanto. Ogni sera, dopo allenamento,
tornavo a casa e quando mi dovevo spogliare per entrare in doccia, lo specchio
di fronte a me mi mostrava l’immagine di una ragazza sconosciuta e grassa.
Avevo i muscoletti che stavano emergendo, ma la mia testa li considerava
“grasso”. Mi sentivo inadatta e sbagliata per questo mondo, ero un enorme
errore e, in quanto tale, un giorno decisi di cancellare con una riga rossa
quello che desideravo cambiare. Una semplice linea color rosso sangue, prima
sulla pancia e sulle cosce, poi sui polsi con la speranza di metter fine a
tutto quel mondo che, pesante, mi opprimeva. Era diventata quotidiana routine:
tornare a casa, litigare con la mia allenatrice-madre, entrare in doccia e
sgocciolare sangue e gocce di vita. Ogni qualvolta prendevo quella piccola lama
tra le mani, potevo sentire delle piccole goccioline della mia vita rimbombare
nel fondo del pozzo in cui mi ero gettata a capofitto. Il sangue scendeva ed io
mi sentivo più viva, sentivo che quello che stava succedendo era giusto, me lo
meritavo: dovevo solo soffrire.
Non uscivo più con i miei amici, mi rivolgevano la parola
solo se obbligati, non avevano mai nulla da dire quando arrivavo io. Più loro
mi ignoravano, più io mi rintanavo nel mio confortevole guscio, più allontanavo
da me chiunque cercasse di mostrarmi un minimo di affetto. Confrontavo le mie
gambe flaccide con quelle delle ragazze più magre e le invidiavo. L’unica cosa
a cui aspiravo era dimagrire, tutto il resto non contava più. Mi sembrava di occupare troppo spazio,
quando ero derisa da chiunque mi vedesse perché invece di spazio ne occupavo
sempre meno.
Mi rendo conto di aver ferito la mia famiglia e i miei
genitori. Mi incolpo perfino di situazioni con cui magari non ho nulla a che
fare, ad esempio la depressione che ha colpito mia nonna. Mio nonno ha
l’abitudine di guardare i miei video delle gare di pattinaggio ma ultimamente
mia nonna, la madre di mia madre, sostiene di non riuscire più a vederli,
incolpando me per il suo dolore. Mia madre mi ripete spesso che non è a causa
mia che la nonna punta il coltello contro il nonno o se a volte piange
vedendomi, purtroppo io però continuo a sentirmi colpevole. Quando vado a
trovarli le conversazioni sono sempre le stesse: “mangia questo, mangia quello, qui c’è l’olio, lì il formaggio, mettici
il sale”. Temo che questo non avrà mai fine, credo che continuerà a vedermi
sempre come la mia malattia.
L’altra mia nonna invece, la madre di mio padre, è molto
religiosa, tanto da aver chiamato mio padre Antonio come forma di
ringraziamento per il santo: quando è nato, la suora che l’ha fatto venire al
mondo gli ha aperto la pelle a livello del torace, tagliandogli un pezzo di
polmone, quindi è nato rischiando la vita. Mia nonna aveva smesso di mangiare,
passava tutto il tempo a pregare Sant’Antonio ed alla fine, non so come sia
successo, mio padre si è salvato, anche se ora si porta addosso una cicatrice
molto grande vicino al petto. Da piccola andavo sempre in chiesa, ma quando le
voci della malattia hanno iniziato a farsi sentire, io ho smesso di credere
nell’esistenza di Qualcuno di buono che ci amasse tutti.
Un giorno sono andata dai miei nonni con mio padre, ma
appena siamo entrati mia nonna mi ha abbracciata ed è scoppiata a piangere.
Ricordo benissimo le parole che mi ha sussurrato tra un singhiozzo e l’altro,
ogni tanto mi capita di sognarle: “Quando
tuo padre è nato, ho pregato Sant’Antonio di farlo respirare di nuovo, ora lo
sto pregando perché non mi porti via mia nipote, il mio bene più prezioso. Deve
salvarti, io sono convinta che tu ci possa riuscire.”
Quella sera ho pianto, ho pianto tanto perché ho realizzato che questo mio disturbo
alimentare non ha rovinato solo la mia vita, ma anche quella di coloro che mi
sono sempre stati accanto.
Molte persone si sono allontanate da me. Le mie migliori
amiche sono scappate via, spaventate dalla mia malattia, ferite dai miei comportamenti,
deluse dal mio isolamento e dalla mia ricerca di solitudine. Non le biasimo,
nel periodo adolescenziale ognuno ha i suoi problemi, ma non nego che ci sono
momenti in cui la mia solitudine mi massacra la testa ed il cuore, ricordandomi
che se ora mi ritrovo qui, la colpa è solo mia, che in questo oscuro e profondo
pozzo mi ci sono buttata di testa da sola. Ogni tanto qualche sconosciuto ha
provato ad avvicinarsi a me, ma dopo aver visto il carico di schifo che mi
portavo sulle spalle, girava i tacchi e lentamente si allontanava. Solamente
una persona, a cui devo davvero tanto, ha cercato insistentemente per ben due
anni di rompere quella gabbia di vetro che mi ero costruita attorno. Ha tentato
di farmi apprezzare le cose belle di me, ma io lo insultavo non vedendole. L’ho
cacciato via mille volte, ma lui è tornato mille ed una volte, ripetendomi che
il mio sorriso non era malato, che il mio corpo mostrava un passato-presente
terribile, ma sosteneva che la forza di salvarmi ce l’avevo, anche se magari
era nascosta in un angolino del mio cuore. Ero
diventata apatica, a volte perfino gioivo a vederlo soffrire per colpa mia, la
mia testa mi convinceva sempre più di fare schifo, di non contare nulla per
nessuno, di essere davvero un mostro a spezzare il cuore a chi me l’avrebbe
donato.
Ero terrorizzata. Andavo a letto con la speranza di non
svegliarmi l’indomani, ma ogni mattina aprivo gli occhi angosciata dall’essere
ancora al mondo. Non riuscivo più a respirare normalmente, a volte era
necessario che io mi ripetessi “inspira ed espira”, da quanto il mio respiro
era alterato. L’ansia ormai era parte di me. Mi si ripeteva di guardare avanti,
ma davanti a me c’era solo un enorme buco nero che mi terrorizzava: non vedevo
un futuro, lo temevo tantissimo. Vedevo ragazze che erano riuscite a darsi la
spinta necessaria per uscire da quell’oscuro pozzo e mi chiedevo cosa fosse
stato ad innescare nella loro testa il meccanismo di “voglio salvarmi”. Ero
tormentata dal pensiero che le cose potessero essere perfino peggio, mi
sembrava di vivere in un incubo. Il problema peggiore, però, era che
quell’incubo mi piaceva: mi ci crogiolavo dentro, mi ripetevo che essendoci
dentro potevo permettermi ad esempio di fare mille addominali dopo aver
mangiato un’insalata, perché tanto mi ci ero immersa completamente nel mio
disturbo alimentare.
Le mie paure hanno
avuto una marea di effetti nella mia quotidianità. La mia preoccupazione ha fatto
sì che io mi lasciassi scappare via l’unica persona che forse mi ha realmente
amato, il mio terrore di sbagliare mi impediva perfino di provarci e di
impegnarmi quando le cose si facevano difficili a scuola, il mio timore di
disturbare non ha lasciato che io risolvessi i miei dubbi e ponessi le mie
domande ai professori per la maturità, la mia angoscia di fallire mi
costringeva a nascondere i miei eventi importanti, come ad esempio l’esame
della patente ai miei. Che senso aveva far nascere in loro una piccola speranza
per la mia riuscita, se tanto dopo avrei fallito come al solito?
Ricordo le urla contro me stessa, penso che nessuno sarà
mai capace di odiarmi nemmeno la metà di quanto mi sono odiata io. Avevo paura
che il mondo potesse ferirmi, allora mi distruggevo da sola con pensieri, tagli
ed esercizi fisici stremanti. Tutto il male che il mio corpo poteva ricevere,
l’ha ricevuto da me.
E' stato
difficilissimo uscire dalla zona di comfort malato in cui mi ero ficcata, non
nego che ne ero terrorizzata, perché ormai avevo paura di stare bene. Mi ricordo il rumore che ha
fatto il mio cuore di vetro quando si è rotto alla vista di mia madre che
piangeva in uno studio clinico dopo le parole della dottoressa “Signora, se sua figlia non si fa ricoverare,
lei la perde.”
Ce l’ho fatta. Ho preso la decisione di
lasciare il centro per i DCA che mi stava facendo cadere ancora più giù, mi
sono rialzata da sola. La guarigione non è per niente semplice, ma ho chiari
davanti a me i miei obiettivi.
Voglio tornare ad uscire con gli amici, a ballare fino
alle 6 di mattina, ad innamorarmi ed emozionarmi per le cose belle che mi
circondano, voglio vedere il sole e tutti i colori dell’arcobaleno, riuscire a
studiare senza il perenne mal di testa, voglio ricominciare a pattinare, non
voglio più essere guardata con disprezzo a causa della mia magrezza.
Voglio tornare a vivere, è questo quello che mi merito.
Aurora
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