Caro amico,
ti racconto di una storia che sembra una sconfitta e invece è una vittoria.
L’ho vista, all’uscita da scuola, losguardo vuoto da adolescente fragilee le ho sussurrato: “Vieni con me”.
Le ho bisbigliato all’orecchio che era grassa, che se Pierpaolo non la amava era per quelle cicce flaccide e quelle gote troppo gonfie e rosse e faceva bene a non volerla e a preferire Eva, così snella, soda, così donna. Le ho detto che lei, a confronto, era solo una bimba fragile e che se voleva avere la meglio avrei potuto aiutarla.
In poco tempo ho succhiato fino all’ultima linfa vitale che vedevo in lei.
Le ho toccato i capelli soffici e li ho resi improvvisamente radi, le ho accarezzato i seni appena sporgenti e li ho trasformati in mandorle dure.
Alla fine, non contenta, ho scelto che la volevo tutta per me senza più dividerla con nessuno. Per questo l’ho convinta che uscire la sera non serviva, che poi magari avrebbe dovuto mangiare un panino e condividere una coca. Doveva controllarsi, invece, se credeva nel nostro progetto e che se è vero che la mente controlla il corpo, le sarebbe bastata una mela per andare avanti.
Ad ogni chilo che perdeva, ad ogni scapola più sporgente le sussurravo che ero orgogliosa, che quella era la chiave della vittoria.
E accadeva ciò che accade sempre: mentre il corpo, altrimenti rigoglioso e floreo si ritirava sempre più atrofizzandosi, io mi facevo largo, fiera, sgomitando tra uno stomaco stretto, un paio di denti corrosi e un cuore ferito.
Gliel’avevo detto, una mattina fredda di Gennaio, di passare due volte il rossetto sulle labbra viola tumefatte. Le avevo raccomandato di mettersi un altro maglione per coprire quelle ossa esposte al gelo. Ma non mi aveva dato ascolto, forse perché qualcosa in lei stava cambiando.
Aveva capito, la sera prima, guardando su Facebook le foto di una festa a cui non era stata invitata, che la felicità è mangiare un panino con gli amici, fare shopping insieme, provarsi i vestiti dell’altro e scambiarli. E l’avevo persuasa, caro amico, che l’unico vestito che le stava bene addosso era il mio, il vestito dell’Anoressia.
Ma non ci ha creduto e ha scaraventato a terra lo specchio che si è fatto in mille pezzetti. Il giorno dopo, a scuola, si è accasciata per terra priva di sensi.
Sciocca, ho pensato, mi hai tradito pure tu.
Di lì in poi ho assistito al mio lento declino.
“Modello multidisciplinare integrato”, “gruppi familiari”, “psicoterapia individuale”: queste erano le parole che ascoltavo ogni giorno quando entravo in stanza con lei.
Per tre lunghi mesi mi ha permesso di accompagnarla e ascoltare ciò che i dottori avevano da dire. A casa, quando era sola, distruggevo a poco a poco i mattoncini costruiti in terapia.
Ma una mattina di primavera, mentre la accompagnavo tenendole stretto il polso attorno al mio, mi ha guardato negli occhi con lo sguardo di chi ancora non è avvizzito e non ha permesso che io entrassi con lei.
Se c’è una cosa, caro amico, che quel giorno ho capito è che aveva scelto di lottare e che inutile sarebbe stato serrarle le labbra se era il suo cuore ad urlare.A poco a poco l’ho vista rifiorire: la solitudine ha lasciato il posto ad un gruppo di amici fidati, il controllo ossessivo sul cibo è stato ridimensionato ma la conquista più grande di questo percorso è stata la possibilità di ricominciare.
A lei, a tutte le ragazze come lei che credono che da questo mare turbolento non si possa uscire se non sconfitti dedico questa lettera.
Le onde sono alte, spesso insormontabili, ma il segreto vero è imparare a nuotare e cavalcarle.
Tua Anoressia
ti racconto di una storia che sembra una sconfitta e invece è una vittoria.
L’ho vista, all’uscita da scuola, losguardo vuoto da adolescente fragilee le ho sussurrato: “Vieni con me”.
Le ho bisbigliato all’orecchio che era grassa, che se Pierpaolo non la amava era per quelle cicce flaccide e quelle gote troppo gonfie e rosse e faceva bene a non volerla e a preferire Eva, così snella, soda, così donna. Le ho detto che lei, a confronto, era solo una bimba fragile e che se voleva avere la meglio avrei potuto aiutarla.
In poco tempo ho succhiato fino all’ultima linfa vitale che vedevo in lei.
Le ho toccato i capelli soffici e li ho resi improvvisamente radi, le ho accarezzato i seni appena sporgenti e li ho trasformati in mandorle dure.
Alla fine, non contenta, ho scelto che la volevo tutta per me senza più dividerla con nessuno. Per questo l’ho convinta che uscire la sera non serviva, che poi magari avrebbe dovuto mangiare un panino e condividere una coca. Doveva controllarsi, invece, se credeva nel nostro progetto e che se è vero che la mente controlla il corpo, le sarebbe bastata una mela per andare avanti.
Ad ogni chilo che perdeva, ad ogni scapola più sporgente le sussurravo che ero orgogliosa, che quella era la chiave della vittoria.
E accadeva ciò che accade sempre: mentre il corpo, altrimenti rigoglioso e floreo si ritirava sempre più atrofizzandosi, io mi facevo largo, fiera, sgomitando tra uno stomaco stretto, un paio di denti corrosi e un cuore ferito.
Gliel’avevo detto, una mattina fredda di Gennaio, di passare due volte il rossetto sulle labbra viola tumefatte. Le avevo raccomandato di mettersi un altro maglione per coprire quelle ossa esposte al gelo. Ma non mi aveva dato ascolto, forse perché qualcosa in lei stava cambiando.
Aveva capito, la sera prima, guardando su Facebook le foto di una festa a cui non era stata invitata, che la felicità è mangiare un panino con gli amici, fare shopping insieme, provarsi i vestiti dell’altro e scambiarli. E l’avevo persuasa, caro amico, che l’unico vestito che le stava bene addosso era il mio, il vestito dell’Anoressia.
Ma non ci ha creduto e ha scaraventato a terra lo specchio che si è fatto in mille pezzetti. Il giorno dopo, a scuola, si è accasciata per terra priva di sensi.
Sciocca, ho pensato, mi hai tradito pure tu.
Di lì in poi ho assistito al mio lento declino.
“Modello multidisciplinare integrato”, “gruppi familiari”, “psicoterapia individuale”: queste erano le parole che ascoltavo ogni giorno quando entravo in stanza con lei.
Per tre lunghi mesi mi ha permesso di accompagnarla e ascoltare ciò che i dottori avevano da dire. A casa, quando era sola, distruggevo a poco a poco i mattoncini costruiti in terapia.
Ma una mattina di primavera, mentre la accompagnavo tenendole stretto il polso attorno al mio, mi ha guardato negli occhi con lo sguardo di chi ancora non è avvizzito e non ha permesso che io entrassi con lei.
Se c’è una cosa, caro amico, che quel giorno ho capito è che aveva scelto di lottare e che inutile sarebbe stato serrarle le labbra se era il suo cuore ad urlare.A poco a poco l’ho vista rifiorire: la solitudine ha lasciato il posto ad un gruppo di amici fidati, il controllo ossessivo sul cibo è stato ridimensionato ma la conquista più grande di questo percorso è stata la possibilità di ricominciare.
A lei, a tutte le ragazze come lei che credono che da questo mare turbolento non si possa uscire se non sconfitti dedico questa lettera.
Le onde sono alte, spesso insormontabili, ma il segreto vero è imparare a nuotare e cavalcarle.
Tua Anoressia
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Alessia
Alessia
Com'è intrigante questo discorso dall'altra parte... come dare voce a una dissociazione che ci viene sempre presentata, ma all'inverso. Brava l'autrice: capace di cogliere la visione d'insieme tramite la scissione.
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