Cara Viviana,
ti parlo immaginandoti per com’eri in passato, ti vedo come ombra incrostata addosso nello specchio; ho smesso di sforzarmi a raschiarti via, perché sei un’altra parte di me, sei il volto di una gemella siamese attaccata alla mia guancia. Quando ti scorgo, non so bene cosa farmene del tuo viso emaciato, dei tuoi occhi spenti, delle occhiaie scavate da mesi di lacrime che non avrebbero cambiato niente; so che mi ero promessa di essere il meno tragica e stucchevole possibile, ma obiettivamente non riesco a vedere nient’altro che zigomi spigolosi e luce spenta, in quel volto fantasmatico che ogni tanto riappare. Questo per dire che non so parlare di quello che è successo –meglio, non so parlare di te- se non sputando fuori tutto il dramma che abbiamo vissuto: che fatica fonderci in questa prima persona plurale, riconoscere che ero te, che il mio volto di ora si caletta sul tuo, che parla al passato ma non per questo è meno presente, o può scomparire di colpo dalla superficie dello specchio che me lo disegna davanti allo sguardo.
Se parlo di questo devo far gridare tutte le scorie che ancora mi abitano, le unghie che come artigli mi sono conficcata in cosce esili (ma mai troppo), le fitte di fame nello stomaco che non si facevano mai farfalle; devo riscoprire il mio corpo e far parlare lui, le sue fibre muscolari stanche, il logorio con cui l’ho martirizzato, e niente di tutto questo riesce a slegarsi dal sentimento del “dramma”. Non riesco a pensare in altro modo a quello che la malattia ha rappresentato, come fosse stata una sorta di cruciale spartiacque: tu sei una persona, poi ti si inocula questo mostro dentro la testa che ti fa piangere di rabbia e frustrazione di fronte ad una cotoletta troppo unta, e prima che tu possa arginarne le ripercussioni sei già un’altra persona incapace di ritrovare l’identità di chi eri prima. Il cambiamento ha stravolto tutto e quasi non rimangono tasselli da raccogliere; fra le macerie di chi eri, ciò che rimane è tutt’al più un riflesso evanescente, il rimasuglio di un ricordo.
Anche oggi che mi specchio sono stanca, ma i miei occhi non si sono più spenti nel buio opaco in cui l’anoressia ti aveva inghiottito. Vedere questa parola fatale ufficialmente scritta sulle diagnosi dall’esattezza impietosa dei medici era una fitta lancinante, ogni volta; adesso impilare le lettere in fila fa lo stesso effetto che dovevano vivere quei professionisti ad attenersi alla precisione del proprio lessico tecnico. È una malattia, è clinicamente appurato; ti è appartenuta, anche questo è consolidato e ne hai assunto coscienza. Ti ha violentato, fatto sciupare amicizie, ti ha reso responsabile della sofferenza indicibile di genitori stanchi: tutto questo i referti medici non l’hanno raccontato.
Vorrei raccontarlo io, prima o poi, se trovo le parole, se torno ad ascoltare il mio corpo per farlo parlare del dolore che gli ho fatto covare.
Il fatto che quel volto sfumi, Vivià, non significa più che desideri accanitamente di sparire o di farti trasparente: semplicemente, tu non sei più quell’espressione abulica, di chi ha perso la magia. E io ti scrivo perché ho smesso di odiarti, perché rappresenti il cambiamento che nego: va bene nominare la malattia, imparare a chiamarla per nome, accettarla nella propria vita come ferita sanguinante di una pelle stracciata. E va bene anche riconoscere in quel volto chi si è stati, per poi spostare lo sguardo sulla faccia di oggi e scoprire che la polpa carnosa delle guance è l’immagine più bella che trovo per esprimere la mia massiccia, ingombrante presenza nel mondo.
Viviana
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