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sabato 18 luglio 2020

Cura di me - Laboratorio 15 luglio 2020


Questo laboratorio è stato molto particolare. Ci sono stati nuovi partecipanti, per cui si è cominciato introducendo la storia delle proprie figlie, il loro attuale percorso in struttura e quanto sia difficile quel momento in cui la propria figlia piange perché vuole ritornare a casa. In queste situazioni, il cuore di un padre e di una madre si fa piccolo piccolo. Nessun genitore vorrebbe mai trovarsi in una situazione simile. Parlarne però aiuta. Aiuta perché come spesso viene detto all’interno dei laboratori, il disturbo alimentare è una forma di linguaggio che cerca di comunicare la sofferenza che si cela dietro a gesti, lacrime, rifiuto della vita. C’è stata una sentita condivisione delle esperienze comuni di questo doloroso e difficile passaggio. In tali situazioni, non bisogna cedere alle richieste della propria figlia o figlio, seppur questo possa essere straziante, poiché a manifestarsi in realtà è la malattia stessa che ha paura di essere spodestata dal suo trono di potere e controllo. A volte può accadere che la propria figlia o figlio, finisca con acconsentire coscienziosamente alla terapia solo con l’obiettivo di tornarsene a casa per ritornare a riprendere i propri rituali legati al disturbo. Ma questo non deve spaventare o far credere che non ci sia speranza nella cura...tutt’altro. Sono passaggi inevitabili del percorso terapeutico. C’è stato poi l’intervento di una mamma che ha voluto esporre la problematica che sta vivendo in questi giorni.
Insieme al marito hanno deciso di trascorrere qualche giornata di vacanza in montagna per staccare da tutto. Purtroppo, la figlia maggiorenne lasciata a casa telefona ogni sera provando a farli sentire in colpa e cercando qualsiasi espediente per farli ripartire e rientrare. Da parte loro c’è la ferma posizione a non cedere, poiché hanno compreso che a parlare in quel modo è la malattia, (e dargliela vinta se ne esce perdenti tutti); ma questo non basta a farli sentire sereni. Infatti, provano molta rabbia e la domanda che è stata posta è che cosa bisogna fare in concreto. In realtà non ci sono risposte, perché se realmente ci fossero, sarebbero già stati scritti manuali sul tema. Quello che si può mettere in atto è cercare di focalizzare l’attenzione su ciò che fa emergere questi comportamenti. Osservare le proprie emozioni, che sono emozioni proprie, non sono dell’altro. Quella rabbia che si prova non è la rabbia della propria figlia. È la propria rabbia. Che cosa non si sta ascoltando di se stessi? Quale parte di se’ non si sta vedendo? Di cosa non ci si sta prendendo cura? La lista delle domande potrebbe andare avanti all’infinito. Ci sono state condivisioni importanti, alcune segnate anche da forti dolori... E d’un tratto, la discussione ha assunto toni più leggeri e goliardici, parlando di comete e cieli stellati, come per riportare il clima ad una serena comprensione e complicità. Questo episodio in realtà non è stato per nulla banale.
Anzi. Liberi dai troppi pensieri, in modo naturale e spontaneo si è riusciti a portare leggerezza. “la leggerezza che è capace di far volare il cuore“ come ha detto un papà. Quotidianamente si vivono momenti di difficoltà che rendono la giornata pesante, eppure, è insita in ognuno di noi la capacità di alleggerire ciò che accade. Solo che la malattia intrappola in meandri razionali che portano lontano dal vero sentire e agire spontaneamente. Anche l’aver scelto la tematica della cometa e del cielo stellato non è un caso. Le stelle sono maggiormente visibili laddove c’è buio. Il buio può essere visto come la metafora della malattia. Le stelle come quegli sprazzi di luce intensa che sono dentro e intorno a noi e che possono solo così essere finalmente visibili. E seguendo questa scia di pensieri ci sono stati molti momenti di silenzio, Allora, è stato chiesto ad ognuno di stare ad ascoltare ciò che quel silenzio faceva emergere. Dopo qualche minuto, è intervenuta una mamma raccontando di aver provato un forte senso di coesione. Quel silenzio non era vuoto, ma al contrario, era carico di significati, che arrivavano, nonostante la piattaforma. Questo ha fatto ricordare il libro Antologia di Spoon River in cui si racconta di un piccolo villaggio in cui vi erano diversi personaggi, il medico, il giudice, l ‘ottico e soprattutto un suonatore che era solito suonare il suo violino per il solo piacere di farlo. E quando il suo violino si ruppe, lui continuò lo stesso a suonare, perché lui era un suonatore. Questo per dire che ogni genitore è prima di tutto una persona che ha il diritto di vivere la propria vita, i propri spazi, le proprie emozioni. È stato un laboratorio particolare perché sebbene sia iniziato parlando del disturbo alimentare della propria figlia, ha cambiato poi direzione andando direttamente a focalizzarsi sull’importanza di riprendere in mano la propria vita. Si è arrivati così a parlare di quanto sia necessario avere cura di se stessi, amare se stessi. Cosa per niente facile. Ma se si vuole davvero essere di aiuto per i propri figli, non si può farlo se non si è aiutato se stessi in primis. C’è stata così la condivisione di un’altra mamma, che in questi giorni si è ricordata che una psicologa le aveva detto anni addietro che dentro di lei c’era una bambina di tre anni che stava ancora aspettando di ricevere quelle cure e attenzioni che le erano mancate. E così, in questi giorni ha ripreso in mano la sua fotografia di bambina, per ricordarsi che la prima cura che deve prestare è quella verso se stessa...
...il mio bambino interiore è ancora dentro di me, non se ne è andato, è la voce che ascolto quando mi do il permesso di essere libero e di essere felice fi fare ciò che mi piace. Il mio bambino interiore...che mi chiede di curare le ferite emotive del passato..
La frase che di questa settimana è: CURA DI ME.

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