“Non mi farai cambiare idea. È
inutile, lo sai che non ti ascolto.”
Già in troppi sanno, in troppi
vedono; alcuni intuiscono, oppure suppongono. È insopportabile avere la
sensazione di essere osservati, spiati e stare in un perenne stato di allerta,
come se qualcuno potesse scoprirla, come se qualcuno la volesse punire. Subisce
silenziosa l’irragionevole castigo che si sta infliggendo, un male che si fa
consapevolmente tutti i giorni. Agisce involontariamente, la parte razionale di
lei è rinchiusa in un groviglio inestricabile di noncuranza, è diventata ormai
un automa incontrollabile. La situazione le è scivolata dalle mani, diventando
estremamente insostenibile. Se prova ad esternare i suoi sentimenti - le sue
ossessioni - tutti la scambiano per una paranoica occasionale e provano
compassione nel guardarla, mentre si crogiola nella sua quieta anormalità.
“E poi sai già come la penso: le
persone sono superficiali, inconsapevoli. Mi guardano, ma non vedono.” dice.
Vorrebbe, invece, che potessero
rovistare nei suoi pensieri e capire che tutto in lei urla. Vorrebbe che
avessero occhi per scrutare nei suoi sensi vuoti e scorgere lo scenario della
sua esistenza: fredde pareti di marmo e un candido cratere, al quale affida
tutto lo squallore delle sue colpe. Accade tutti i giorni, da settimane che non
conta più, non un momento di respiro, tra un morso e l’altro. In verità,
compatisce se stessa, mentre si scopre intenta a cercare il suo riflesso
nell'acqua sporca e fangosa, in quel buco; a guardare allo specchio gli occhi
di un qualcuno che non è più lei, osservando venature e rossore anormali su
quel volto livido; ad ascoltare il suo affannoso respiro andare su e giù per lo
sforzo di sembrare sempre più sottile e piccola. Vive in un continuo stato di
disillusione procrastinatrice, come se conoscesse l’immediato rimedio per porre
fine a questa sua assurda bramosia di torturarsi.
“Credo che in fondo non mi
importi davvero. Uscirne o no, intendo”.
Pensa invece che le basti
sentirsi dire che è troppo magra e che non mangia abbastanza, pensa che le
basti leggere da un ago il giudizio su di sé, per valutare se deve farsi del
male o meno.
Prova soddisfazione
nell'osservarsi allo specchio. Il suo bacino sembra una pianura sconfinata e
sterile. Sente improvvisamente nascere in lei un indeterminato stimolo che
prende possesso del suo corpo e che la invita - la persuade - a colmare il suo
vuoto, ancora e ancora, instancabilmente, senza trovare un termine ai suoi vani
tentativi di riempire quella tanto agognata desolazione. Porta le mani al volto
e osserva le sue dita, complici di ripetuti atti contrari, strumenti innaturali
di liberazione e contemporaneamente di pentimento. Premono sulla punta della penna
per scrivere, parola su parola, il disprezzo per se stessa. Le fissa, rovinate
dall'acido; la gola brucia e uno schifoso sapore riempie la sua bocca mentre
ansima e piange. Piange perché non comprende quello che sta facendo. Ma è
ancora quel disumano pensiero a sedare la sua disperata sofferenza:
“Penso che mi basti sentire la
nausea appena ne ho bisogno”.
Quando quella fase di assopimento
termina, quando la coscienza si risveglia e scuote quell'avvolgente culla di
torpore, si rinchiude in casa, indegna dello sguardo altrui; e si guarda
intorno, con espressione vacua, indifferente a ciò che accade, troppo lontana
per partecipare alla realtà, troppo vicina per non esserne impaurita; e si
accorge di non essere davvero al mondo, ma di osservarlo tristemente, rimanendo
composta ed inerte dietro ad una lastra di plastica opaca; e sente la vita che
le scivola addosso, ma non riesce ad afferrarla.
“Non voglio parlarne. Nessuno
capirebbe.”
Così scende, scende nel baratro
del suo vuoto, così accogliente che, nell'abbracciarla, la sovrasta tutta e la
soffoca; e si chiede se ne valga la pena: si chiede se vivere in un eterno
presente valga davvero tutto questo dolore.
Martina Morossi
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