Per
raccontare la storia di mia figlia Sabrina, dovrei ritornare indietro negli
anni. Io, mamma di Sabrina nasco nel 1944 figlia di n.n. Cresco in un orfanotrofio
fino all'età di 16 anni.
Trovo un
lavoro e mi sposo nel 1965 con un brav'uomo, mi inserisco in una famiglia, la
sua, che mi accoglie e mi vuole bene. L’anno successivo, nel 1966 il 23 maggio
nasce Sabrina. E’ bella come il sole. Siamo felici e lei cresce bene. Dopo tre
anni arriva Edj, il fratellino, crescono felici e bravi come tutti i bambini.
Il destino è in agguato, mio marito si ammala a soli 31 anni di una brutta
malattia ai polmoni. Entra ed esce dagli ospedali per ben 16 anni con alti e bassi.
E’ un uomo buono e dolce con i bambini, ma riescono a star poco con lui. Muore
a soli 47 anni, Sabrina ha 22 anni, Edj 19. Penso col senno di poi e con
l’esperienza acquisita in questi anni che, Sabrina abbia incominciato proprio
allora a soffrire in silenzio.
Qui inizia
il suo calvario.
E’ una
ragazza piena di amici. Ha il ragazzo, la storia finisce dopo cinque anni.
Trova un
altro amore, sarà quello che le starà vicino.
Sembra
apparentemente una ragazza felice, ma qualche cosa sta covando.
Lei incomincia
a fare sport, danza, di tutto e di più in maniera ossessiva. La sua dieta,
adottando varie scuse, diventa sempre più restrittiva, lamenta una stitichezza
ostinata e per anni, di nascosto, assume lassativi, tisane e altro. Si rivolge
a specialisti di Milano e Parma.
A lungo
andare si rovina l’intestino al punto tale che deve esser operata. I medici le
raccomandano di seguire una dieta specifica per lei. Io cerco di seguire alla
lettera le indicazioni dei medici, ma lei fa quello che vuole. Si riprende
bene. Decide in seguito di andare a Trento con il suo caro Denis, lei lavora
come estetista, sembra soddisfatta ma io incomincio a preoccuparmi. Perché
direte voi? Sabrina cala di peso, me ne accorgo anche se lei si mimetizza sotto
i maglioni larghi.
Davanti
alla mia insistenza di voler sapere cosa c’è che non va, mi tranquillizza
dicendomi che lavora troppo. Avendo parecchio tempo a disposizione, le preparo
le cose che le piacciono, vado nel suo appartamento a Trento e per aiutarla,
faccio i lavori di casa, convinta di risolvere il problema, povera illusa! Ma
come ho fatto a non accorgermi che era una cosa assai più grave! Passa un po’
di tempo finché un giorno vedendola dimagrita ancora, mi rivolgo al mio medico
condotto, il quale mi prepara la carta per un ricovero urgente.
Entra in
ospedale, è il suo primo ricovero. Un po’ di flebo, un po’ di integratori ma
poca umanità. Le persone come Sabrina venivano viste come capricciose, viziate
e come tali venivano trattate. Ritorna a casa, il suo ragazzo e tutti noi
cerchiamo di aiutarla, di starle vicino convinti che tutto si sarebbe
sistemato. Purtroppo siamo solo all'inizio, i ricoveri si alternano alle
dimissioni.
Un giorno
in una lettera da consegnare al medico di base c’era scritto: -Sabrina è
affetta da anoressia nervosa-. Mio Dio, ma cosa è questa cosa? Consulto un
vocabolario, per un attimo ho sentito il peso del mondo sulle mie spalle, ma
combattiva come sono, me lo sono scrollata di dosso ed ho iniziato la mia
grande battaglia contro l’Anoressia. Brutta bestia, mi dicevo, fatti avanti
vedrai con chi hai a che fare! Il tempo passa mia figlia si riprende, sta un
po’ meglio e incomincia a lavorare a par-time. Viene seguita da un dietologo,
da uno psicoterapeuta e si va avanti. Io divento la sua ombra, ci sono sempre
forse troppo e lei diventa mamma dipendente. Sono io che vado in cerca di
medici, lavoro per lei, quasi quasi respiro anche per lei. Solo adesso mi rendo
conto di quante cose sbagliate ho fatto, ho reso mia figlia ancora più fragile.
Ma tenete presente che io avevo dichiarato guerra all'anoressia. Passano i mesi
fra alti e bassi finché un giorno il suo ragazzo la riporta a casa. Mi dice che
fa fatica a starle dietro, deve lavorare, è via tutto il giorno, Sabrina non
era più in grado di lavorare. Rincomincio a vivere con mia figlia e l’ora dei
pasti diventa un incubo per lei e per me. Mangiamo assieme, ma lei appena
finito corre in bagno. Tento inutilmente di bloccarla, le parlo, la prendo in
braccio ma senza risultato. Ho provato a chiudere la porta del bagno e lei
vomitava in cucina. La mia battaglia incominciava nel vero senso della parola!
La sgridavo, la supplicavo, piangevo, ma lei continuava la sua amicizia con la
“Bestia”. Viene ricoverata per la prima volta in psichiatria, aveva acquisito dei
comportamenti maniacali. Andando avanti e in dietro da Trento, pensavo a cosa
avrei potuto fare perché mi dicevo: io sono sua madre, devo fare qualcosa, io
la salverò.
Invece
questo ricovero è il primo di una lunga serie durata ben 4 anni.
Entra per
la prima volta in una comunità fuori regione, sta 3 mesi, un vero fallimento!
Viene mandata a casa perché non collabora.
Trovo un
bravo psicoterapeuta, lei si trova molto bene e sembra che le cose vadano un
po’ meglio, riprende a fare il suo lavoro a casa con le sue amiche e
conoscenti, così si sente gratificata e guadagna qualche soldino. Vedendo che
stava un po’ meglio decido di prendermi una piccola vacanza di una settimana.
Mio figlio mi rassicura prendendosi l’incarico di occuparsi, assieme a mia
nuora, di Sabrina.
Al mio
rientro vedo purtroppo che lei è di nuovo in crisi, lì mi prende un grande
senso di colpa. Io non dovevo allontanarmi, che razza di madre sono! Sabrina
sente che sta male e chiede di essere ricoverata, aveva dei comportamenti
maniacali che la portano di nuovo in psichiatria. Vado da lei quasi tutti i
giorni, ma lei è angosciata e mi chiede il perché, invece di darle un supporto
psicologico, la riempiono di farmaci. Riparte per un’altra comunità, non
chiedetemi dopo quanto tempo perché non ricordo più le date, tante erano le
entrate e le uscite. Va a Brescia e ci rimane circa tre mesi, poi anche da lì
viene messa alla porta. Vengo contattata alle ore 13 circa, mi dicono che devo
essere lì entro le 15 altrimenti Sabrina verrà messa su un taxi. Grazie
comunità di Brescia per la vostra umanità. Vado a prenderla e si ricomincia di
nuovo. Alti e bassi, crisi isteriche, vomitava e poi si sentiva in colpa.
Quando lei andava in bagno scappavo e andavo a nascondermi perché se io non ero
presente quando lei usciva, non aveva le crisi. Stavo per ore in soffitta, dove
da una finestra potevo controllare se Sabrina andava e ritornava. Lei, dovete
sapere, dopo aver vomitato, andava sempre al cimitero sulla tomba del suo papà
e dei suoi nonni a qualunque ora. Io aspettavo che lei ritornasse e andasse a
letto. Dopo un po’, quando pensavo che si fosse addormentata rientravo in casa.
Il giorno dopo si ricominciava e a momenti, la disperazione mi portava a
pensare di scappare, di farla finita, ma poi il pensiero della mia sfida alla
malattia prendeva il sopravvento. La mia cara figlia ritorna nuovamente in
psichiatria e da lì riparte per un’altra comunità, questa volta in Piemonte. Ci
rimane circa 3 settimane, ma poi scende di peso e sono costretti a ricoverarla
in ospedale, ma essendo fuori regione la trasferiscono di nuovo a Trento in
psichiatria. Ci rimane un po’ di tempo. Sento parlare di una clinica
universitaria a Pisa. Lì sembra siano più preparati e mi faccio in quattro per
farla andare giù. Quando ho visto il posto avendola accompagnata con
l’ambulanza, ho pensato di essere arrivata nell’anticamera dell’inferno! In
questo reparto erano ricoverate, secondo me, le persone senza speranza. I
tavoli, le sedie, tutto era inchiodato a terra e c’erano telecamere ovunque.
Sabrina finisce subito legata mani e piedi a letto controllata a vista. Io non
vorrei discutere sul sistema, ma ancora adesso mi chiedo a cosa è servita
questa atrocità. Per poterla vedere partivo da casa alle 3 e mezza del mattino,
arrivavo a Pisa alle 13 circa. Potevo stare con lei un paio di ore, andavamo
fuori a fare un giretto, poi si rientrava. Credetemi non vedevo l’ora di
scappare da lì, avevo il cuore che mi scoppiava. Quando arrivavo avevo una
valigia piena di pigiami e asciugamani puliti, quando ritornavo indietro invece
la stessa valigia era piena delle stesse cose ma sporche, piene di vomito. Ho
chiesto più volte se, essendo lontana, potevo avere modo di usufruire di una
lavanderia, ma la risposta era sempre la stessa “No”. Ritornavo a casa con
questa valigia pesante che puzzava! In treno, sebbene avessi il posto
prenotato, me ne stavo vicina all'uscita perché temevo che le persone
sentissero l’odore che proveniva dalla valigia. Arrivavo a casa verso le 24,
tutto questo per 4 lunghi mesi. Avevo il cuore pieno di angoscia e dolore,
perché vedevo la mia cara Sabrina soffrire tanto, se avessi potuto sarei andata
io al suo posto. Viene sottoposta anche all'elettrochoc, senza risultato. Viene
rispedita a Trento nuovamente in psichiatria, ma riparte quasi subito per una
nuova comunità, Portogruaro. Lì, a differenza degli altri posti, ho trovato
umanità anche nei miei confronti, ma eravamo arrivate tardi, la dimisero dopo
due mesi circa perché non c’era più niente da fare. Il dottor Salvo, responsabile
del centro, ci abbracciò e mi disse sussurrando: mi faccia sapere. Capii subito
cosa intendeva dire. Ma io non volevo mollare, non potevo. La mia rabbia verso
la “bestia” che mi stava portando via la mia cara Sabrina, aumentava sempre di
più. Lei entra in una casa protetta di Trento, la “Casa del Sole”. C’erano
persone con svariati problemi, seguite dal centro salute mentale, ma nonostante
tutto, si trova bene. Ha la sua cameretta, la sua indipendenza. Io la vedo
quasi tutti i giorni e speravo nella mia incoscienza che la sua permanenza lì
potesse essere provvisoria. Povera illusa, ma io mi ero mangiata il cervello!
Come facevo a non vedere che non c’era più niente, era uno spettro, era
trasparente! Il giorno 10 agosto, un giovedì mattina decido di portarle alcune
cose che mi aveva chiesto, trovo assieme a lei nella sua camera, il nostro
medico condotto. Lui si era preso l’incarico di seguire Sabrina anche lì, la
stava visitando. Le finestre sono aperte, è una bellissima giornata. Mi mette
una mano sulla spalla e mi dice: sua figlia se va avanti così non arriva alla
fine del mese.
Mia figlia
ignora le parole del dottore e se ne va a fumare. Io scoppio a piangere,
Sabrina ritorna e mi dice: non piangere per me, perché questa non è vita! Io
l’abbraccio la accompagno di sotto al sole. Mi allontano, salgo in macchina, la
guardo per l’ultima volta nello specchietto retrovisore, consapevole che forse
era l’ultima volta che la vedevo! Non so come ho fatto ad arrivare a casa.
Verso le 19 dello stesso giorno, arriva una telefonata dalla “Casa del Sole”:
venga giù sua figlia non sta bene. Parto consapevole che Sabrina non c’era più.
Maledetta
Anoressia, hai vinto tu. Sabrina è sul letto, ha gli occhi aperti, azzurri; ha
uno sguardo dolcissimo. Mi siedo sul suo letto, la accarezzo, la bacio per
l’ultima volta. Addio adorata figlia mia, raggiungi pure il tuo caro papà e i
tuoi nonnini come tu li chiamavi, ma ti prometto che finché avrò la forza:
lavorerò in nome tuo, perché nessuna madre, nemmeno la peggiore, dovrà mai vedere
morire una figlia così.
Ti
prometto che farò tutto il possibile per aiutare quei poveri genitori che si
troveranno ad affrontare la “Bestia”. Ce la sto facendo, faccio parte di un
associazione: l’ARCA, sono una volontaria. Quando parto da casa per fare il mio
dovere di volontaria, guardo la foto di mia figlia, la saluto e le dico:
aiutami, stammi vicino. Vi assicuro che all’ARCA c’è pure lei!
CIAO
SABRINA NON TI DIMENTICHERO’ MAI!!!
MAMMA
Anneliese Zanon
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