Ciao Giammy,
così è come ti piaceva esser chiamato e ancora oggi, quando penso a te
e ti parlo sussurrando nella mia mente, faccio attenzione a nominarti come tu
più volevi. Sono trascorsi ormai sei anni e mezzo da quel freddo e buio giorno
d’estate in cui volasti via da noi. La freddezza e l’assenza di luce di quel
giorno riecheggiano ogni volta che provo a ricordare quell’estate così
intossicata di angoscia, tormento e morte. Ricordi il primo giorno in cui ci
siamo conosciuti, eravamo due ragazzini incoscienti di quattordici anni che
stavano per iniziare una nuova avventura liceale, ignari di cosa ci avrebbe
riservato quel futuro troppo colmo di sogni davanti a noi. Ancora ricordo
quella gita in Sicilia, che ci bloccò tutti su un battello per 12 ore
ininterrotte e ci costrinse a diventar abili scopritori dei metodi più
innovativi di trascorrere più velocemente il tempo. Quanto sarebbe bello, oggi,
che quelle 12 ore si fossero trasformate in 24, 48, forse anni, per bloccare
inevitabilmente quel momento li, fissarlo eternamente su quel battello, per non
farti più andare via, per non costringerci più a doverti vivere solo per mezzo
di un sogno. Quella gita rimarrà eternamente impressa in me, coinciderà sempre
con un punto di non ritorno, perché è da lì che la bestia “affamata” iniziò
pian piano sempre più a togliermi cibo, amore, tempo e respiro. Tutto iniziò
con la privazione di cibo, per quella bestia doveva essere sempre meno, sempre
il minimo, sempre insufficiente a soddisfare uno stomaco che rimpiccioliva
giorno dopo giorno. Il mio corpo non richiedeva più nutrimento, si preoccupava
solo di saziare quella bestia di odio e rassegnazione, e più la bestia mangiava
e cresceva, e più diventava vigorosa, imponente ed importante nella mia vita.
Esistevo solo io e lei, dal puntuale risveglio mattutino, al puntuale
addormentamento notturno. In quel giorno di agosto ormai la vera me esisteva
solo in una piccola parte nascosta del mio cuore, perché la bestia era
diventata così gigante da sovrastare ormai il piccolo corpicino in cui ero
racchiusa. Quella piccola me in quella piccola porzione di cuore urlava
terribilmente, voleva poter uscire di lì ed impossessarsi nuovamente del suo
corpo, ma la bestia teneva quella gabbia d’oro saldamente chiusa. Mentre io
ogni sera mi addormentavo, la bestia stringeva leggermente di più quella corda
intorno al mio collo. Un nodo in più ogni giorno mi stringeva, più avanzava il
tempo e più respirare diventava complicato. Non immagini quanto è stato
difficile e quanto tempo è passato prima che riuscissi a scriverti, a parlarti,
troppo offuscata dal senso di colpa e dal disprezzo che provavo verso me
stessa. In quel maledetto giorno di agosto, mentre io vivevo la mia
annichilente quotidianità anoressica, tu morivi, accasciandoti a terra davanti
ai tuoi amici e non rialzandoti più. Da un lato c’ero io che da anni mi
lasciavo morire lentamente, rifiutando la fortuna di una vita che denigravo e
rinunciando adun futuro luminoso che spegnevo. Dall’altro lato, invece, c’eri
te, un ragazzo con una strabordante voglia di crescere e sognare, che perdevi
ingiustamente e precocemente dal nulla la tua giovane vita. Quante volte mi
sono sentita indegna di essere viva, non sopportavo la rintronante
consapevolezza che al posto mio potevi esserci tu. Qualche mese dopo che te ne
sei andato, rinchiusa in un terribile reparto psichiatrico, con un sondino che
mi fuoriusciva dal naso, ho trasformato quella rabbia che provavo verso me
stessa in consapevolezza. Ho capito che io dovevo rinascere per entrambi. Nel
momento in cui io ho deciso di vivere ho deciso di ESSERE, sia per me, sia per
te. Il mio corpo è diventato il tuo corpo, le mie vittorie sono diventate le
tue vittorie, i miei occhi sono diventati i tuoi occhi.
Tua A.
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