32
chili: esulto sulla bilancia. Il mio corpo sta diventando così leggero che mi
sembra di poter volare. Via, lontano
dalla mia paura di vivere. Ma un macigno di tristezza mi fa da zavorra: arranco
penosamente per le scale, sono a corto di fiato, senza forze. E a ogni passo mi
sento sconfitta, mentre sprofondo nelle sabbie mobili dell’anoressia nervosa.
Non trovo il mio posto nel mondo
Sono
figlia unica e fin dall’infanzia, poiché entrambi i miei genitori lavorano,
trascorro la maggior parte del tempo dai nonni, con libri, borse e abiti sparsi
tra due case. Questa situazione un po’ zingara inizia a farmi soffrire durante
le scuole medie, quando avverto il bisogno di un angolo tutto per me. Solamente
con la danza classica, che pratico dall’età di cinque anni, sento di avere un
posto nel mondo. A scuola sembro
trasparente: la timidezza ostacola le amicizie. Con l’inizio dell’estate dei
miei 15 anni, la solitudine e la noia sono diventate una droga che mi toglie la
ragione. Un giorno, sfogliando un giornale, leggo un articolo su come ritrovare
la linea. Non sono in sovrappeso, ma inizio a studiare le tabelle nutrizionali
dei prodotti, giusto per passare il tempo: nel giro di poco, divento una guru
della composizione degli alimenti. Mele, spaghetti, carne, verdure: imparo le
percentuali di carboidrati, proteine, fibre e grassi. Finché un mattino, allo
specchio, un pensiero mi solletica l’orgoglio: «Con qualche chilo in meno,
forse starei meglio». Rinunciare a brodi e petto di pollo lessato, menù fisso
dai nonni, non è faticoso. E mentre il mio peso inizia a calare, lo stomaco si
restringe. «Posso scendere ancora»: sfido me stessa in modo insulso, senza
rendermi conto del vortice in cui mi sto infilando. Calcolare esattamente
quante calorie inghiotto mi regala una sensazione di onnipotenza; non mi rendo
conto che mi sto inabissando rapidamente come il Titanic.
Vivo in gara con me stessa
«Mangia
un po’ di più»: mia madre una sera mi fissa preoccupata. «Eli, sei dimagrita,
stai bene?», mi chiede nei giorni seguenti una delle mie poche amiche. Non
capisco perché si preoccupino: i miei fianchi mi sembrano così larghi rispetto
al mio busto esile. Ma di lì a poco non c’è più un abito in cui non sprofondi:
ho perso 15 chili in tre mesi. Finché un giorno sulla bilancia compare il
numero 32: sorrido vittoriosa. Allo specchio, però, scorgo solo il ghigno di un
fantasma che mi fa sobbalzare il cuore. Avverto l’istinto di gridare, ma i miei
genitori sono più veloci della mia voce e mi portano di peso in ospedale. «Il
sondino nasogastrico mai», minaccio la dietologa. E l’incontro con la psicologa
non va meglio: patteggio tre pomeriggi a settimana tra visite mediche e
percorso psicoterapeutico, pur di evitare il ricovero.
Mi sento morire dentro
«Scordati
di ballare in queste condizioni», sentenzia un altro medico, gettandomi nella
disperazione. Le ore in cui avrei dovuto volteggiare sulle punte le trascorro
disegnando. Tra i miei arabeschi svuoto la mente: l’anoressia mi sta privando
di ciò che più amo. La rabbia mi assale e si mescola all’ansia. La sera prego il cielo che mi faccia risvegliare
il mattino dopo: ho il terrore che il mio cuore, messo a dura prova, ceda nel
sonno. L’anoressia ha corroso la mia voglia di vivere. Tutto d’un tratto, nel
mio corpo scheletrico intravedo un futuro di profonda tristezza, da cui potrei
salvarmi solo con un lungo lavoro interiore. Non so da dove partire, non trovo
conforto nella terapia psicologica. Di una cosa però sono certa: non voglio
essere ricordata come una debole o compatita. Non ho scelta: o aspetto di
sbriciolarmi, o ricomincio a mangiare.
L’amore per la danza mi ridesta
Ogni
boccone è un pugno nello stomaco, ma la cosa più complicata è non cedere ai
calcoli delle calorie: cerco di concentrarmi su altri numeri, e conto i giorni
che mi separano dal saggio di danza di fine anno. Non voglio mancare. È maggio,
ormai, quando recupero il peso minimo per riprendere le lezioni: appena calzo
le scarpette, dovrei sentirmi radiosa, eppure avverto un’inquietudine. Ho
sempre preteso da me stessa esecuzioni degne di un étoile, ma ora capisco che
questo atteggiamento mi ha distolto dal puro piacere di danzare. Provo a
lasciarmi andare sulle note di Tchaikovsky, ascoltando solo la mia struggente
voglia di ballare: non conto i passi della coreografia e il mio cuore inizia a
volare. Ora sì, assaporo la felicità. I miei movimenti sono imperfetti, ma non
importa, perché ce l’ho fatta: sono riuscita a salire sul palco del
teatro. E soprattutto sono tornata sul
palcoscenico della mia vita.
Di nuovo al centro della mia
esistenza
«Brava
Elisa, stai andando bene». La nutrizionista da cui vado durante l’estate è un
faro nel mio tortuoso percorso di risalita dal buio. Mi hanno permesso di
interrompere le visite ospedaliere purché io sia seguita da una specialista e
lei mi piace perché non mi identifica con i miei chili. Divide lo studio medico
con il marito e nella fiducia che anche
lui ripone in me di riflesso si fortifica la mia autostima. «Ti possiamo
aiutare, ma solo tu puoi cambiare la situazione. Sei tu il soggetto della tua
vita», mi sprona un giorno. Come un’illuminazione, di colpo mi rendo conto di aver
vissuto ai margini della mia esistenza, con un atteggiamento passivo che mi ha
condotto alla deriva. Ora però sono determinata, voglio sconfiggere
l’anoressia, mi è chiaro che sono io l’artefice del mio destino. «Combatti
Elisa, reagisci», mi ripeto varcando l’uscio. Corro dai miei nonni e prendo
tutte le mie cose: quando rientro a casa, mi ritaglio uno spazio tutto mio. Ed
è solo l’inizio.
Alla fine ho vinto la mia guerra
Sono
passati cinque anni. Il bilancio? Essere “leggera” è stato molto pesante. Con
l’anoressia ho intrattenuto un estenuante combattimento: lei ha avuto la meglio
in alcune battaglie, ma la guerra l’ho vinta io. La mia famiglia, le mie vere amiche, i miei medici, tutti sono
stati preziose tessere della mia rinascita, ma senza la mia volontà sarebbe
stato impossibile ricomporre il puzzle
della mia identità divorata dalla malattia. Oggi sto incominciando ad amarmi e
ad accettare ciò che non posso cambiare.
«Prendete la vita con leggerezza», scrive Italo Calvino in Lezioni
americane, «che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose
dall’alto, non avere macigni sul cuore». La sue parole mi danno una direzione.
Sto imparando a lottare per ciò che desidero, perché non sia la paura del
futuro a pilotarmi: voglio essere io al timone della mia vita, avanti tutta verso la mia felicità.
Elisa
Elisa
Sossi, 20 anni, vive a Trieste con i genitori e frequenta la facoltà di Lettere
moderne. Studia danza classica da quando aveva 5 anni. Nel libro Il
peso della leggerezza (Aletti editore) Elisa Sossi ripercorre la sua
vicenda di malattia e guarigione. L’autrice ha partecipato al premio Quasimodo,
indetto dalla sua casa editrice, ed è arrivata terza.
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