Quando
si parla di disturbi alimentari la gente comune che non l'ha vissuta
personalmente o come famigliare della "vittima" ma ne ha solo sentito
parlare da un TG mentre era a tavola con la propria famiglia, o leggendo un articolo
su un quotidiano in pausa pranzo, pensa subito ad una malattia del corpo. Un
corpo che, quasi inspiegabilmente, diventa troppo magro, o troppo grasso.
Immagina l'anoressia attraverso un vestito taglia 36 di una modella che cammina
con una forza inspiegabile su una passerella, o una tuta taglia XXL introvabile,
addosso a qualcuno che tenta di entrarci dentro cercando di nascondere la sua
massa e di farsi scivolare addosso atti di bullismo e umiliazioni direttamente
proporzionali al proprio surplus corporeo.
In
realtà i disturbi alimentari sono qualcosa di molto più complesso e non solo
riconducibili semplicemente ad un numero della bilancia sempre troppo
borderline - anche se ovviamente, anche questo è un fattore che necessita di
essere preso in considerazione quando poi si comincia un percorso di
guarigione, liberazione, di... ritorno alla vita.
Io
che ne ho sofferto per tanti anni e in più sfumature posso raccontarvi la mia
storia, perché è necessario avere più consapevolezza in questo mare magnum di
informazioni che rimbalzano da una parte all'altra del web e del mondo reale,
perché sono le testimonianze di chi l'ha vissuto sulla propria pelle a fare
maggior chiarezza e perché no, dare una mano a chi ci è dentro a piè pari e
ancora non riesce a comprenderlo o ad ammetterne il disturbo.
Non
ricordo esattamente quand'ho iniziato a soffrire di anoressia, non c'è un
"giorno x" che ho segnato sul calendario e da cui ho iniziato a
spuntare giorno dopo giorno le settimane , i mesi, gli anni. Però posso dirvi
che ho iniziato a non accettarmi più attorno ai 12, 13 anni, parliamo di fine
anni '90, poiché ora sono adulta e di anni ne ho 33. Non accettavo il mio corpo
che diventava maturo, non accettavo i cambiamenti ormonali, un seno
prosperoso oggetto di attenzione e scherno da parte dei compagni di scuola, non
accettavo più il mio viso abitato da una forte acne giovanile, non accettavo
che assieme a tutto questo cambiamento, la mia mente iniziava a prendere
consapevolezze di insicurezza (sembra un paradosso, lo so), di timori mai avuti
prima, fiducia in me stessa sempre più precaria, nel mio essere troppo
sensibile, con cui a volte ci avrei fatto a botte per sentirmi un po' più
anestetizzata e un po' meno suscettibile.
Era
evidente che mi sentivo a disagio. Non mi ritrovavo più in quell'involucro, non
mi trovavo più in famiglia, dove il dialogo iniziava a trasformarsi in una
battaglia continua per qualsiasi cosa. Iniziai a soffrire di gastrite, gastrite
vera, già a 12 anni, di quelle che ti obbligano a seguire una dieta, dal non
bere the, coca cola, non mangiare cioccolata, cibi fritti. Tutto ciò di cui un
adolescente invece si nutre in quegli anni spensierati.
E
in questa dieta imposta dal dottore iniziai a sentirmi più sicura, protetta. A
scuola avevo la giustificazione scritta per la dieta "in bianco", i
miei piatti erano sempre candidi e puliti, mi rassicuravano come rassicurerebbe
il latte materno ad un neonato, ero una mosca bianca, qualcosa di fragile che
veniva visto sempre di più come "diverso" e in questa diversità
silenziosa io mi ci avvolgevo come si fa in inverno con le copertine in pile. A
casa c'era il piatto cucinato ad hoc solo per me. E questo mi dava sempre di
più sicurezza e protezione da un mondo che non mi piaceva e di cui non sentivo
di far parte. Passato il periodo di dieta e passata la gastrite però mi sentii
come abbandonata e da allora ricordo che iniziai di mia volontà a scegliere lo
stesso di non nutrirmi più di certi alimenti, per paura di star male; una sorta
di "campagna preventiva", e da lì mi accorsi che in questo modo le
persone mi guardavano, i compagni di classe, i professori, i miei genitori, e
tutti rispettavano questa mia scelta senza farsi troppe domande.
Col
tempo la scelta degli alimenti non bastò più, iniziai a mangiare meno, sempre
meno giustificandomi con il fatto di sentirmi già sazia dopo un boccone e di
temere di star male e vomitare. Dicevo di non riuscire più a digerire niente,
sembrava che tutto fosse un macigno nel mio stomaco tanto che iniziai anche a
farmi comprare omogeneizzati e a nutrirmi sopratutto di quelli. Mi sentivo come
una bambina in fase di svezzamento, appunto, ogni cucchiaiata presa dal vasetto
la vivevo con lentezza e misticità, convinta che quello sarebbe stato il giusto
compromesso tra nutrirmi, non sentirmi sazia, e mantenermi "diversa".
Fu in quel periodo che avvertii anche il cambiamento del mio corpo, quando i
vestiti iniziarono a non starmi più, quando le mie compagne di classe mi
guardavano quasi con occhi pietosi, quando i miei genitori provavano ad alternare
gli omogeneizzati con un piatto di pasta e poi, in silenzio, mi toglievano da
tavola il piatto mangiato solo per un quarto. Dimagrivo e mi sentivo più forte,
era un modo per gridare la mia sofferenza, perché a voce non sono mai riuscita
a farmi ascoltare, forse nessuno era propenso ad ascoltare, forse io per prima
non trovavo il coraggio a voce . A quell'età non si hanno abbastanza capacità
rielaborative per esprimere a parole mille disagi esistenziali. Per questo i
miei genitori mi mandarono da una prima psicologa, perché lei facesse da
tramite, da traduttore dei miei pensieri, riportandoli poi ai miei che sempre
più preoccupati si chiedevano che disagio avessi addosso. Ci andai per un paio
d'anni, riuscii anche a farmi cambiare di sezione per vedere se riuscivo a
socializzare con nuovi compagni di classe magari più "positivi".
Nonostante questo cambiamento il mio disagio continuò a trascinarsi, anche se
con più leggerezza, a fasi alterne, a volte c'era, a volte lo mandavo in ferie
qualche giorno nutrendomi di attimi di pura gioia adolescenziale. Sembrava
gestibile. Eppure dentro sentivo che non ero del tutto in pace.
Terminate le
scuole medie, fu un ennesimo cambiamento a prendere il sopravvento. Scuola
nuova, persone nuove, confronti nuovi, ritmi diversi. Non mi trovavo più, mi
ero persa in una scuola che non ero sicura di voler fare, io volevo fare la
musicista giacché suonavo il pianoforte già da 8 anni ed ero pronta per il
conservatorio, i miei invece mi avrebbero voluto veder diventare psicologa, e
per questa ragione intrapresi una scuola ad indirizzo umanistico, conscia anche
del fatto che ero una studentessa modello, non mi mancava la buona scrittura,
un buon metodo di studio, una bella dialettica. Ma non era quello che volevo.
Non in quel momento. E mi trascinavo in conflitto con me stessa sui banchi, tra
compagni di classe praticamente tutti sconosciuti, che condividevano con me
poco e nulla, con materie che tutto sommato mi piaceva anche studiare, ma che
avrei voluto scegliere io, di mia iniziativa. Davo il massimo, ottenevo il
massimo. Ero l'alunna perfetta, come sempre. Ma non ero felice.
E
così iniziai a soffrire di attacchi di panico quando provavo ad uscire la sera
con i miei nuovi compagni di classe, trovandosi per una birra clandestina e una
sigaretta scroccata, lì mi assaliva il panico, mi mancava l'aria, non volevo
sentirmi uguale alla massa eppure avevo questa estrema necessità di sentirmi
parte di un gruppo, parte del mondo, essere accettata, approvata. Ma non ci
riuscivo. Iniziò lì la mia vera corsa al declino, conoscevo già le tecniche, il
livello base l'avevo già affrontato alle scuole medie, ora ero più grande,
pronta per il corso Senior. Iniziai a non mangiare, a non bere, se proprio
vedevo che a casa buttava male e tirava aria di tensione per i miei piatti
lasciati così come mi erano stati offerti, mi sforzavo di mangiare e poco dopo
dai sensi di colpa correvo in bagno a vomitare. Fu così che conobbi anche una
delle altre sfumature dei disturbi alimentari, quella della bulimia. E quindi,
per non dare troppo nell'occhio, questo nuovo comportamento alimentare divenne
quasi una sfida con me stessa: riuscire a non destare sospetti, vivere la mia
autodistruzione senza che nessuno se ne accorgesse. In fondo, a tutti
interessava solo vedere il piatto vuoto. Per tutti era quella la voce della
verità, la consolazione, la sicurezza di uno status di salute. Volevano vedermi
mangiare? Perfetto. Eccovi serviti. Mangiavo.
E
poi andavo a vomitare tutto. In silenzio e lontano.
Ormai
non ero più Serena. Ero un piatto da terminare. La felicità di tutti derivava
da quello. Se Serena mangiava, tutti erano felici. Ma nessuno si chiedeva come
mi sentissi a fine pasto, e nessuno si chiedeva come mai- nonostante mangiassi-
il mio corpo dimagriva, la bilancia segnava numeri impazziti.
Sì,
la bilancia, perché iniziai a conoscere anche quel marchingegno infernale,
iniziai a scoprire di averne ben 3
in casa e ognuna pesava a modo suo, con 2 o 3 etti di
differenza. Ed io iniziai a sfidarle. Mi pesavo prima su una, poi sull'altra, e
ridevo perché c'era la bilancia che non perdonava e mi mostrava 44 kg, quella più altruista
me ne mostrava 43,7.
Dove
volevo arrivare...
Iniziai
a darmi dei traguardi:
arriviamo
a 42, vediamo se ce la faccio.
Poi
a 41.
E
in tutto questo calare io mangiavo e nessuno si faceva delle domande, o forse
non avevano il coraggio di farsele e farmele.
E
nel mio dimagrire trovavo la forza, nel mio dimagrire e nel mio fumare, perché
dicevano che fumare faceva passare la fame, faceva bruciare calorie. Io in
realtà bruciavo già di mio dentro, per i dolori di stomaco, le vertigini che
avevo dopo ogni vomitata. Ogni tanto mi concedevo una tregua e preferivo
saltare un pasto, quello mi faceva sentire meno sporca, più pura. E fu così
fino ai 16 anni, alternando digiuni, rifiuti, mangiate obbligate e poi messe in
punizione. Mi punivo e non ero lucida, la notte dormivo poco, di giorno ero
assente, passavo le ore a toccarmi le anche che sporgevano, a guardarmi le
clavicole, a piegarmi davanti allo specchio per vedere quanto le costole
fossero evidenti, e se dopo aver mangiato la pancia mi si gonfiava mi tiravo
dei pugni sull'addome dalla rabbia, con la speranza che rientrasse, piangevo in
silenzio in camera mia, chiusa a chiave, perché nessuno potesse mai vedermi
nuda.
Poi
arrivò un giorno, un giorno qualunque davvero in cui in un momento di
spensieratezza in vacanza, presi in parte mio padre dicendogli che dovevo
parlargli.
Lui
già sapeva cos'avevo da dire ma mi lasciò parlare.
Gli
dissi che ero malata, che soffrivo di non so bene cosa, a volte bulimia a volte
anoressia, che volevo essere curata perché non ne potevo più.
Fu
l'atto più coraggioso che feci nella mia vita, fu una liberazione per me ma
anche una condanna perché dopo aver fatto outing ebbi gli occhi puntati addosso
in modo quasi vendicativo. Mio papà mi promise un aiuto, andammo da uno
psichiatra di un centro per disturbi alimentari di Milano che mi mise in lista
d'attesa per il ricovero, nel frattempo iniziai una terapia farmacologica che mi
spense un po' il cervello e con sé tanti cattivi pensieri. Ma in casa ormai non
avevo scampo. Se mangiavo i miei mi proibivano di andare in bagno a vomitare,
quindi decidevo di digiunare scatenando le ire di mia madre. Il mio sistema
famigliare era ormai andato a pezzi. Mia sorella maggiore non capendo la mia
sofferenza la vedeva come un capriccio, mio fratello più piccolo di me di 6
anni, ascoltando il parlare a ruota libera di mia madre nei momenti di
disperazione, temeva che stessi per morire, come spesso lei mi diceva per
mettermi paura.
Arrivò
anche un momento in cui desiderai davvero di sparire perché il ricovero non
arrivava ed io a casa ormai ero come un ospite sgradito, una mosca da mandar
fuori dalla finestra. Finalmente mi chiamarono per il ricovero ma non fu come
speravo. Era più che altro fatto di flebo, farmaci, incontri con psichiatra in
cui si parlava del mio peso, come mi sentivo dopo aver mangiato e se me la
sentivo il giorno seguente di aggiungere 5 grammi in più alla mia
porzione di pasta. Ero in un gruppo di circa altre 10 ragazze, tra cui c'era
solo gran competizione, e tra di noi c'erano gare ma anche scambi di
"ricette" per ingannare le bilance dell'ospedale, per trovare la
strada più veloce per dimagrire dopo una flebo di glucosio. Assieme facevamo
delle terapie di gruppo, con conversazioni quasi scientifiche,
pragmatiche, incontri con una nutrizionista che cercava di farci capire che una
merendina non ci avrebbe fatto ingrassare tutto d'un colpo.
Ed
io che non sapevo se ridere o piangere, davvero, perché non era quello che
cercavo, io cercavo ascolto, non indicazioni nutrizionali, io conoscevo già a
memoria le tabelle nutrizionali di qualsiasi tipo di alimento, qualsiasi tipo
di biscotto, di taglio di carne, di pesce, di bevanda. che bisogno c'era di
fare educazione alimentare. Soffrire di disturbi alimentari significa
soffrire nell'anima. Il corpo è solo un tramite per esporre il proprio soffrire
invisibile, che non trova parole né espressione propria.
Serena Gambuto
--- continua ---
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