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Questo spazio è dedicato a tutti coloro che vogliono CREARE UNA NUOVA CULTURA SUI DCA. Siete tutti importanti perchè unici, così come uniche sono le vostre storie e i vostri pensieri. Questo Blog resta quindi aperto a chiunque voglia proporre o condividere, perché Mi Nutro di Vita è di tutti ed è fatta TUTTI INSIEME.

mercoledì 25 settembre 2013

La scrittura libera...i pensieri volano

Con molto piacere vi proponiamo una serie di pensieri e riflessioni raccolti dalla nostra amica Rosy... parlano di lei, parlano di me, parlano di tutti noi...

Scoprirsi, svelare i propri scheletri nell’ armadio, può essere un atto di coraggio, un impulso dettato dalla stanchezza, un modo per essere trasparenti, non giustificarsi in continuazione o spiegare perché si fa o non si fa una determinata cosa. Non sto parlando di denudarsi di quella giusta e sana riservatezza che deve far parte di noi, ma semplicemente della voglia di vivere in libertà il proprio essere, senza più trappole. É vero tante cose rimarranno incomprensibili alle persone, soprattutto quando la tua bocca pronuncia queste parole " soffro di anoressia da otto anni"..e da li "ma come, perché non ti manca niente, hai tutte le carte in regola". Prima di tutto perché, non c è un perché, possono esserci uno,due,dieci, cento mila perché quindi non c è risposta, poi ho tutto? Non mi manca nulla ? Allora vi dico cosa è tutto? Quel tutto può essere tranquillamente NIENTE,il vuoto...allora non biasimo chi non può capire fino in fondo di cosa si tratta perché solo vivendola si può veramente comprendere..chi soffre come te dello stesso male, non verrà a chiederti perché , ma ti sfiorerà con uno sguardo con il quale ti dirà so cosa provi. Ma per chi ne è al di fuori, anche se giustamente si sente impotente,sappia che le parole tante volte non servono a molto ma un semplice abbraccio può far rimanere senza fiato.

 

 

 

Leggendo alcune pagine di un diario che ormai da tempo sto scrivendo, mi è venuta ancora più voglia di parlarvi un pò di me.......Bè che dire sono otto anni che combatto la mia battaglia con l'anoressia una battaglia lunga, difficile fatta di riprese e ricadute....si può dire che quasi immediatamente chiesi aiuto e cominciai subito ad essere seguita da una nutrizionista e da una psicologa e per breve tempo da uno psichiatra...ho fatto esperienze di danzamovimentoterapia, terapia di gruppo e familiare e apparentemente sembrava che le cose stessero migliorando...ma l'anoressia è subdola così come la bulimia...infatti due anni fa inevitabilmente è arrivata una brutta ricaduta....il vomito era diventato il mio "compagno" ogni giorno e più volte al giorno...se alcuni giorni mangiavo pochissimo in altri mi azzardavo a mangiare un pò di più, quel di più che può rientrare nella normalità, il vomito diventava un chiodo fisso, un rito e tante volte mangiavo per vomitare, riempire un vuoto per svuotarlo subito perchè tenere il cibo dentro di me significava trattenere anche emozioni per me insopportabili e l'unica strada per farle uscire fuori era proprio quella...questa situazione è andata avanti fino allo scorso anno quando ho rischiato un arresto cardiaco...ricoverata in ospedale ho cominciato l'alimentazione parenterale, dolorosa, invasiva psicologicamente e fisicamente e solo dopo mi sono resa ben conto che anche quello era il segno di una grave patologia...come può accettare una persona tanto dolore fisico e psicologico piuttosto che mangiare? La cosa più naturale del mondo in fin dei conti...da lì è cominciato un altro calvario l'attesa di ricovero in una clinica di Guidonia specializzata in disturbi alimentari...l'attesa ha comportato una vita ospedaliera in casa...non mi era consentito fare quasi nulla per evitare di perdere altro peso, finchè nell'agosto dell'altro anno sono stata ricoverata...un percorso duro, doloroso difficile per me e la mia famiglia....lì ho imparato ad accettare la malattia un altro step fondamentale per la "guarigione". Gia perchè in otto anni non ho mai accettato il fatto di essere anoressica, avevo anche paura di pronunciare questa parola...la consapevolezza è il primo passo ma poi ci vuole l'accettazione perchè senza quella il cammino diventa più difficile anzi direi impossibile. Ora continuo le mie cure fuori dopo nove mesi di ricovero. Il mio percorso è molto lento perchè ho imparato anche che ci vuole molta pazienza oltre a molta forza. Sono i piccoli passi quelli che rendono le tue giornate e i tuoi risultati grandi, fatti nei giusti tempi....Mi sto rendendo conto anche di quanta forza mi dia parlarne, qui, con gli amici, conoscenti e soprattutto poter contribuire in qualche modo alla sensibilizzazione delle persone al problema...è per questo che vi dico non abbiate paura, non provate vergogna date voce alle vostre sofferenze, perchè il dolore appartiene a tutti così come la rabbia, l'intolleranza, l'insicurezza, la gioia, l'allegria e chi ne ha più ne metta.Vi abbraccio forte

 

 

La libertà si raggiunge cercando altrove ? Altrove dove ? Rimanere imprigionati ...in un labirinto di menzogne e paure, in acque fredde, gelide senza alcun conforto ti spinge a volare via per cercare altrove quell'angolo di paradiso. Ma prima di volare bisogna percorrere quel labirinto strabordante di rovi, vecchi alberi privi di vita, sentieri sterrati fatti di sassi appuntiti sui quali si rischia di cadere, dove i raggi del sole si posano per troppo poco tempo per poter riscaldare anche un solo quadratino di terra. Allora l’ istinto è quello di fuggire perché si è stanchi, affaticati e non ci si riesce nemmeno ad ammetterlo, o meglio 'non ci è concesso'. Ma quando esplori ogni angolo del labirinto anche quello più impervio, ne esci ugualmente distrutta e sfinita, con ogni scampolo del tuo corpo segnato da cicatrici. Da questo momento però puoi permetterti di volare e anche di andare a cercare altrove..

 

 

 

Gli ostacoli possono essere una risorsa?.....direi proprio di si! Risorsa, mezzo di conquiste e cambiamenti...chi l'avrebbe mai detto che attraverso il mio grande"OSTACOLO" scoprissi la meravigliosità della colazione...una cosa normale per tanti ma per me, come ben mi capite, no.... ora per me la colazione è diventata sacrosanta...il mio primo pensiero del mattino è quello di andare a fare colazione perchè è il mio corpo che me lo chiede...la colazione non ha mai fatto parte del mio stile alimentare neanche prima della malattia ma ora almeno quella è diventata sacrosanta... in quel momento riesco ad ascoltare il mio corpo, i suoi bisogni e guai a chi me la leva !!! il corpo che deve essere soddisfatto, che prova piacere perchè l'atto del mangiare non è per forza legato a un dovere è una sensazione che il mio OSTACOLO mi ha dato l'opportunità di provare...quante persone vivono la loro vita in maniera automatica senza dare "peso" a ciò che fa parte della quotidianità? io ci sono riuscita perchè forse quella non era la mia quotidianità, anzi era la proibizione fatta persona. Certo sono molto legata ad un certo tipo di colazione e in questo sono ancora molto rigida, ma guardo al fatto che prima era solo un grande tabù! Per me questa è una piccola grande vittoria che ho raggiunto nel mio cammino e farò di tutto affinchè esso sia costellato di vittorie...guardo avanti si agli obbiettivi da raggiungere ma mi godo anche quelli raggiunti, per sentirmi fiera di me come non ho mai fatto

 

 

 

 

Pensare a se stessi è terrificante,

ma è la sola cosa onesta:

pensare a me come io sono,

alle mie brutte caratteristiche,

alle mie belle qualità,

e stupirmene.

Quale altro concreto inizio,

da quale punto di partenza progredire, se non da me stesso?

 

Kahlil Gibran

 

In un percorso di conoscenza di sè dove si va a scavare in profondità, si viene a contatto con ogni nostro spigolo, curva o sfumatura. Uno spigolo può essere fastidioso da sopportare; una debolezza che non si accetta perché pensiamo di non potercela permettere, dobbiamo essere all’altezza delle aspettative degli altri  e soprattutto delle nostre inconsapevoli, un ‘difetto’ che ci allontana dal nostro modello rigido di perfezione che ci rende troppo severi e intolleranti verso noi stessi perché forse tutta la tolleranza che possediamo la utilizziamo  solo verso gli altri che poi inesorabilmente ci invadono, o meglio ci lasciamo invadere. Le curve sono quella via di mezzo nella quale riusciamo a vedere delle volte il bicchiere mezzo pieno e delle volte il bicchiere mezzo vuoto, uno strattone che ci allontana da noi stessi e un dolce passo di danza che ci porta verso il nostro centro. Poi le sfumature, l’equilibrio forse più difficile da raggiungere dove non esiste il “o”…. “o” ma il “e”….”e”,  dove i colori sono quelli dell’arcobaleno e non le immagini di una televisione in bianco e nero, dove riusciamo a guardare e a sorprenderci della grandezza del nostro vivere già solo perchè siamo unici e irripetibili al mondo con i nostri pregi e i nostri difetti, luci e ombre, con i nostri forse e i nostri però ma pur sempre unici.

 

 

 

Imparare a dire di no….Quanto è difficile tante volte pronunciare questa semplice parola….Già perché se dico di no cosa potrebbe succedere? Verrò rifiutato? Verrò abbandonato? Perderò la stima e l’amore degli altri? Non  sarò accettato? Ma quanto l’accettazione da parte degli altri passa insindacabilmente attraverso l’accettazione di noi stessi in prima istanza. Per noi però è sempre troppo difficile pensare ad affermare il nostro modo di essere, è molto più facile annullarsi per accontentare gli altri. Il risultato è che così ci vogliamo sempre meno bene, ci sentiamo sfruttati e inadeguati. I nostri desideri e le nostre esigenze passano in secondo ordine perche ‘la paura di disturbare’ è sempre più forte. Il nostro canone di perfezione è sempre così preponderante che non lascia spazio a ciò di cui abbiamo bisogno e alla fine ci ritroviamo a vivere una vita arida perchè è quella vita che NOI non avremmo voluto. Una vita in cui l’altro occupa uno spazio sempre troppo grande nel nostro mondo, uno spazio che lievita ogni giorno di più senza lasciare neanche un cantuccio per noi stessi, per potere esprimere la nostra personalità. Il risultato è soffocare continuamente e covare rabbia, stanchezza e un grande senso di insoddisfazione. Ci sentiamo invasi dall’altro che può approfittare della nostra disponibilità perche se fondamentalmente non ci poniamo noi alcun problema perché dovrebbe farlo gli altri? Allora impariamo a rispettare il nostro spazio e di conseguenza a farlo rispettare. D’altronde,  come dice Fabio Volo ‘Pensare a se stessi non è un egoismo. Semmai lo è pensare solo a se stessi’.

 

 

Quando non si ha la lucidità di capire la differenza tra ciò che deve essere messo in discussione e cosa no, si finisce che si accettano le cose che dovrebbero cambiare e si insiste a voler modificare quelle che si devono accettare così come sono. Accettare non è una cosa facile.Troppo spesso non guardiamo fino in fondo ad un nostro modo di essere o ad un aspetto patologico per paura di affrontarne la sofferenza che ne consegue. E allora rivolgiamo il nostro sguardo in ciò che non va negli altri con la pretesa di poterla cambiare, perché ci sembra assurda illogica e inaccettabile. Poi però ti rendi conto che certe cose non possono essere cambiate e che devi immergerti a capofitto in quello che in te non va. Accettare qualcosa non significa rassegnarsi ma prenderne atto, ammettere la situazione qual è, un passo successivo alla coscienza e precedente all’azione. E se questo comporta affrontare una o più battaglie diventiamo orgogliosi delle nostre cicatrici le quali dicono molto di più della lama della spada che le ha provocate.

Forzaaaaaaaaaaaaaaaa!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

 

 

 

 

Un simpatico aneddoto parla di due ragazzini, uno ottimista e l’altro pessimista. IL pessimista viene condotto in una stanza colma di bellissimi giocattoli di ogni tipo, ma appena entrato si siede vicino all’uscio e fa il muso. Poco dopo lo fanno uscire e gli chiedono perché lì dentro si sentisse così infelice. “Perché sapevo”, risponde triste “ che se avessi scelto un giocattolo che mi piaceva, probabilmente si sarebbe rotto”.

Nel frattempo il piccolo ottimista, che è stato condotto in una stanza piena di sterco di cavallo, si è messo a scavare alacremente e intanto canticchia una ballata da cow-boy. Quando lo invitano a uscire, scuote il capo e continua a scavare. “io lo so”, esclama tutto eccitato, “ con tutto questo sterco, da qualche parte deve esserci un pony”. Ecco l’importante è credere al pony, credere che ci sia sempre un dono nascosto sotto la ….. chiaro no?

 

 R. Norwood, “Guarire coi perché”

 

Quante volte non ci soffermiamo abbastanza sui risultati ottenuti o non ne godiamo neanche una briciola perché abbiamo paura che sia un’illusione? Ci diciamo ‘ok ho raggiunto questo obbiettivo ma sicuramente una ‘trappola’ c’è’ dimenticando il faticoso cammino che ci ha portato a raggiungerlo. E’ vero mai abbassare la guardia e esser comunque pronti, ,ma troppe volte questo diventa un ostacolo nel passare in rassegna i doni che abbiamo ricevuto. Dal peggiore dei mali può nascere una nuova vita e il livello di consapevolezza che abbiamo raggiunto può servirci a pensare che anche le nostre attuali difficoltà daranno i loro frutti.

 

 

E poi diventi un parafulmine, la malattia diventa un parafulmine per gli altri. Attraverso essa possono uscir fuori dinamiche che non riguardano in toto te in prima persona, ma le persone che hai accanto. Essa può scatenare paure, rabbia, insicurezze negli altri o meglio le risvegliano e diventa il mezzo attraverso il quale anche gli altri parlano di sè.
Hanno da ridire su di te, sulle cose che non vanno in te ma in realtà parlano di loro, del loro mondo e di ciò che in loro non va.
Questo accade in famiglia dove ridefinire i ruoli e gli spazi diventa complicato e la malattia diventa uno spazio che ci si ricava per farsi sentire, ma non solo per chi la vive in prima persona ma anche per le persone che ti stanno intorno e questo può essere molto pericoloso. La stanchezza mentale delle persone coinvolte nel percorso terapeutico è normale che ci sia e che si faccia sentire, ma tante volte si traduce in un' ambivalenza di stati d'animo in cui si vorrebbe esser coinvolti ma allo stesso tempo non ce la si fa più. Allora tu vivi in questo stato di confusione che è non solo tua ma anche degli altri. Capire fino a che punto coinvolgerli e quando fermarsi. questo è un altro problema.

 

 

 

Quando si vive un disagio per tanto tempo si comincia a credere che ormai non ci sia nulla da fare, ci si da per spacciati e si abbandona ogni speranza...allora diviene più difficile entrare in contatto con il concetto di AIUTO.E' insito nella natura dell'essere umano perseguire l'idea 'io basto a me stesso', 'non ho bisogno degli altri', un concetto che trasferito su un disagio diventa molto pericoloso e tende ad amplificarsi. Ci si chiude in se stessi perchè non ci si sente capiti non si sente quell'empatia con l'altro che ti fa sentire a tuo agio nell'esprimerti, hai paura di essere frainteso, giudicato e dopo tutto molte volte, anzi troppe volte, si dice 'sto bene' perchè sarebbe troppo complicato spiegare perchè si sta male. Allora eviti, ti nascondi dietro un falso sorriso e quelle tre parole 'tutto bene grazie', è meno impegnativo sicuramente, il rischio è che poi a forza di dirlo te ne convinci e in superficie diventi il paladino del benessere. Si in superficie...come un lago gelato fatto di strati di ghiaccio più resistenti e lastre che al minimo tocco vanno in mille pezzi e poi inevitabilmente devi fare i conti con quelle acque gelide che ti paralizzano. E' lì che si blocca tutto; pensieri, emozioni e parole...perchè l'impatto è così forte che reagire istantaneamente è impossibile. Allora pensi che avventurarti su un lago ghiacciato è qualcosa di troppo pericoloso e decidi o di rimanere impassibile su una sponda o di calpestarlo con cautela per cercare la parte più fragile, quella più facile da perforare ma hai l'accortezza di portarti una corda dietro e si assicurarti la presenza delle giuste persone sulla sponda del lago per poterti poi calare nell'abisso, immergerti nel gelo di quelle acque e risalire aiutandoti con quella corda che è fatta 'soltanto' di tutto l'amore che puoi avere per te stesso, e da quelle stesse persone pronte a tenderti la mano sulla riva del lago.

 

 

Riaffacciarsi con occhi e un cuore diverso a qualcosa che già conosciamo. Tante volte è facile perdere quel senso della ‘sorpresa e della scoperta’ davanti ad eventi o ad attività che per lungo tempo hanno fatto parte della nostra vita. L’emozione della novità è qualcosa che si perde quando ripetiamo per l’ennesima volta qualcosa che facciamo più o meno da sempre. Invece il segreto per goderne appieno ogni volta è proprio quello di guardarlo sempre con occhi nuovi. Sorprendersi di sé e di quello che ti accade intorno è uno dei dono più speciali che la vita ti può offrire. Un po’ quello che è successo a me ieri. Dopo tanto tempo rivestire quei vestiti da pagliaccio, che si in passato mi emozionavano già solo nell’indossarli, ma ieri sera è stato qualcosa di diverso.

Avrà avuto un significato anche il mio nuovo vestito, nuova Rosy nuovi abiti. Mi sono ritrovata a fare qualcosa che facevo da tempo e nella quale  a detta degli altri me la sono sempre cavata egregiamente forse per lo spirito che mi ha sempre accompagnato. Ma ogni volta lo vivevo si bene ma anche con un senso di ansia e di angoscia che mi accompagnava e del quale piano piano mi sto liberando da un anno a questa parte. Certo di strada da fare ce n’è ancora molta per arrivare a quella tanto desiderata serenità ma ieri ho sentito i risultati del cambiamento che sta avvenendo in me. Mi sono divertita, ma in maniera diversa senza pensare troppo ‘ma i genitori dei bambini saranno soddisfatti, io sarò abbastanza brava’ una trappola infernale questa. Bè ieri per molti istanti questo pensiero mi ha abbandonato e sono riuscita a godere di più anche del mio e del loro sorriso così come di quello di mia sorella che inevitabilmente anche lei non sta vivendo un momento facile proprio per tutto quello che ha scatenato la mia malattia. E come diceva il grande De Andrè è proprio vero che ‘dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior’.

 

 

E negli abissi della rabbia puoi affogare...quella rabbia inespressa, che ti comprime lo stomaco tanto da renderlo insensibile...soffocare, non svelare e ingoiare...tenerla nascosta in primis a se stessi perché pensi che sia un' emozione malvagia che tu non puoi provare, il tuo modo di porti non ammette rabbia..un sentimento malsano che non può appartenere ad un cuore nobile! Ma siamo umani, esseri umani con le proprie debolezza e le proprie fragilità, con la rabbia, il rancore e l intolleranza...per continuare a dimostrare di avere un cuore nobile non ci si permette neanche più di essere semplicemente quello che siamo; esseri umani...provare emozioni che definirei ' difficili' può metterti in gabbia proprio perché sono loro a farlo nel momento in cui non gli dai spazio facendo finta che non esistano..dargli voce non significa essere malvagi, significa accettarsi e poterle guardare dritte negli occhi. Questo può rendere il tuo cuore ancora più nobile !
Un abbraccio
Michi

Una bolla nell'aria

Rosy racconta....

Una vita sospesa come una bolla nell'aria che fluttua...questa vita era la mia più di un anno fa....appesa a un filo, fluttuante e senza stabilità...un rimanere sospesi che fa male, ti uccide dentro e fuori...ma nel rimanere sospesi una dolce e flebile mano ti evita di cadere più giù, di dissolverti a terra come se niente fosse. Una mano amica che ti protegge, ti sostiene e ti accompagna. Quella mano emanava calore, un respiro vitale così come una luce soffusa irradiava il mio essere delicatamente senza farsi sentire troppo, perchè il gelo intorno a me era veramente troppo per essere annientato da una tenue luce apparentemente insignificante. Quel barlume però è stato più forte e mi ha guidato e mi sta guidando verso la risalita...curve, dossi, dirupi ma così quella luce come quella mano mi accompagnano, mi sfiorano con grazia e mi trasmettono man mano quel tepore...ed io ora porgo loro una guancia per avere una e più carezze, nei momenti di sconforto e nelle piccole vittorie, perchè ora fa un pò meno freddo e quel gelo davvero non lo voglio più.

Ancora tanta forza nel raccontare...


Danzando per la vita

  
Storia vera di Barbara M. raccolta da Giulia Bertollini

 

Era una notte di fine gennaio. Fuori, il vento e la pioggia sembravano combattere un'ardua battaglia come fossero antagonisti di una triste storia. Nella penombra della mia stanza, la luce vibrante dei tuoni ritagliava sulle pareti immagini di vita danzante mentre il lento sciabordio dell'acqua si mescolava confusamente ai ricordi di una vita trascorsa davanti ad una sbarra. Negli anni passati in Accademia avevo assaporato il merito e il successo ma nel contempo mi ero anche imbattuta nella sofferenza e nel vuoto dell'anima. Avevo sei anni quando per la prima volta mia madre mi accompagnò in una scuola di danza. E' strano come certe sensazioni si ripropongano ogni qualvolta un brivido scorra sotto la pelle. L'odore della pece solleticava quella stanchezza improvvisa che funestava i muscoli e intorpidiva la mente mentre i grandi specchi a muro riflettevano le posizioni e condannavano gli errori. Appoggiavo le mani alla sbarra e nella fatica dei movimenti sentivo il legno inumidito, impregnato di sudore. Quando danzavo riuscivo a sentirmi libera ed era come se le note sprigionate dal pianoforte accarezzassero la mia anima, trastullandola di baci. Con il tempo però, riuscii a sgrossare quella acerba realtà e quello che vidi si confondeva con i miei sogni, dissacrandoli e annegandoli nella confusione. Non tutte infatti, compresa me, possedevano quelle linee perfette che la danza richiedeva come fosse un dettame obbligatorio e questo, unitamente ai chili di troppo, poteva infierire nella mente di una ballerina ambiziosa. Durante il quinto anno di corso, provai a mie spese che la rincorsa della perfezione è spesso il riscatto dell'abnegazione totale. Indossavo la magrezza come l'abito migliore e guardandomi allo specchio, adulavo le ossa sporgenti. Non immaginavo a cosa stessi andando incontro fin quando un giorno capii che il mio stomaco era diventato un piccolo imbuto. L'incubo assunse così contorni spaventosi sino a rivelare il proprio nome: Anoressia.

 

 

Seduta a tavola, fissavo il cibo e sfidavo il suo odore cercando di frenare l'impulso del vomito improvviso. La bistecca riposava nel piatto accomiatando la forchetta, appoggiata tra le labbra della bocca. Fingevo di masticare buttando giù saliva, un gioco perverso dietro cui annullare preoccupazioni e paure. Il calore avvampava le orecchie e il cuore batteva all'impazzata, scandendo ritmi sovrapposti. Mi alzai di scatto dalla sedia correndo trafelata verso il bagno, mentre sentivo lo stomaco mordersi per poi svuotarsi come un peso stanco nella tazza. Il cibo si trasformò pian piano in un'amara ossessione, un demone da cui dileguarsi, un avido nemico da sconfiggere. I capelli divennero sempre più radi, ridotti ormai ad un insolito mucchietto e il sangue mestruale si arrestò. Arrivai a pesare 33 kg per 1.72 di altezza. Intanto in Accademia, fervevano i preparativi per il saggio di fine corso. Il balletto scelto era “La Bella Addormentata” di Chaikovsky, uno dei più grandi capolavori del musicista russo. Presentimenti negativi infarcivano ed adombravano i pensieri mentre sentivo affrettarsi il passo cocente della delusione. L'amara convinzione si dissolse però nelle parole dell'insegnante:

“ Barbara, tu interpreterai la Fata dei Lillà”.

Il grido interiore di entusiasmo faceva a cazzotti con il senso di inadeguatezza. Durante le prove, sentivo le gambe afflosciarsi come panni sbattuti e la testa girare vorticosamente.  Di notte, immobile nel letto, dipingevo con lo sguardo il mio corpo vissuto e straziato. Lo vedevo lì, steso a terra, martoriato e coperto di lividi profondi, mentre a stento tentava di rianimarsi, assetato di vendetta.

Con le mani, tastando il ventre nudo, rivelavo solchi e ossa e, nel silenzio, trangugiavo a sorsi la disperazione, arginando le lacrime. Ogni giorno di vita era una fuga dall'abbraccio della morte. Ballando sulle punte, eclissavo i languori spenti e i sorrisi persi raggirando il dolore che mi scuoteva. Ma, un giorno, accadde l'imprevedibile: durante le prove in teatro, mentre mi esibivo in una variazione, caddi rovinosamente a terra. La Fata dei Lillà giaceva sul pavimento, priva di sensi.

 

 

Quando riaprii gli occhi, mi ritrovai in un letto di ospedale con l'ago della flebo conficcato nel braccio. Non ricordavo nulla di quanto era accaduto. Era come se la memoria si fosse tramutata improvvisamente in un buco nero nel quale gorgogliavano marce speranze e desideri infranti. Nella sacca, le gocce di glucosio cadenzavano il tempo malsano, ristorando l'aspra sconfitta. I mesi intanto trascorrevano lenti, animati talvolta dalle visite di parenti e amiche dell'Accademia. Mi rinserravo nei loro gesti d'affetto,rubando sorrisi ed estorcendo consigli. In quel momento, più che mai, avevo bisogno di ricevere calore e amore da chi mi voleva bene. Purtroppo però, i miei genitori erano morti in un tragico incidente stradale quando avevo undici anni e la loro perdita non si era mai cicatrizzata. Nel frattempo, i medici mi sottoposero ad alimentazione forzata, costringendomi ad ingerire piccole quantità di cibo per riabituare lo stomaco. Le macerie del corpo si sgretolarono sotto il peso di una nuova pelle. Lottavo tutti i giorni per vivere e per ricominciare a danzare. Ad ogni boccone di cibo, ingerito e non rimesso, rimuginavo sul lungo calvario vissuto espiando l'inammissibile ingenuità. Riacquistavo giorno dopo giorno i chili persi mentre la mia vecchia immagine affondava trascinando assieme a sé le viscere del mostro. Mi sentivo meglio e questo bastava a darmi la carica per non arrendermi. Come un leitmotiv, continuavo a pensare alle parole di mia madre all'epoca in cui entrai in Accademia.

“ Sarà una strada difficile, ardua, alcune volte penserai di perderla di vista ma guarda dritta sempre davanti a te e la ritroverai. Ne sono certa. Rincorri i tuoi sogni e questi un giorno diventeranno realtà”.

Quanto aveva ragione!. Terminato il periodo di ricovero, tornai in Accademia. Ero pronta ad un nuovo inizio e stavolta niente mi avrebbe fermato. L'anoressia si era insinuata subdolamente come un amante mendace strappandomi dalle mani il futuro e violentando i sogni ma io avevo dimostrato di essere più forte e avevo vinto. Ce l'avevo fatta. Oggi, da ballerina professionista, posso raccontare la mia storia infondendo coraggio a tutte le donne che rinnegano la loro immagine braccando la femminilità nell'assenza di curve. Voglio dire loro che, prima di amare gli altri, bisognerebbe imparare ad amare se stessi con le proprie imperfezioni e instabilità. Stasera si va di nuovo in scena per una replica del balletto “Il Lago dei Cigni”. L'emozione è palpabile. Seduta in camerino, osservo l'immagine riflessa di Odette. L'altra metà, Odile, l'ho seppellita dentro di me tanto tempo fa. Mancano cinque minuti. Mi alzo avviandomi dietro le quinte mentre in platea serpeggia il silenzio.

Il sipario si alza e la luce si spegne. Lo spettacolo può iniziare. 

 

 

venerdì 6 settembre 2013

Rossella

Grazie ancora Rossella

La questione è che ce la prendiamo col cibo quando vorremo vomitare tutt'altro, la rabbia, la paura, la gente. Quel posto per tre, che invece è solo per due. Tu ne sei fuori. Quel posto che qualcuno si è preso senza chiedere permesso, senza bussare alla tua porta o all'anima. Quegli occhi che ti scrutano e sì, ti fanno schifo, rabbia, non è odio. E' che quella donna ti ha portato via tutto con violenza, si è presa ogni cosa, il mobile che piaceva a tua madre, gli scatoloni pieni di ricordi e speranze, le foto, lo spazio, la casa, tuo padre. Perché sì, alla fine per quanto non fossimo una coppia vincente, si era creata una certa complicità di padre e figlia, effimera, debole, ma c'era. Poi sì, ce la prendiamo col cibo quando ti scoppia il cuore ed i legami vanno in frantumi, ce la prendiamo col cibo perché non ha un volto, non ha voce, resta solo lì a subire ciò che ti accade dentro, mentre gli occhi degli altri non vedono e le orecchie di tuo padre non ascoltano. Mentre lei tira fuori il peggio di te, sradica via le tue certezze ed il tuo tetto sulla testa. Sei fuori, scoperta, non resisti agli urti e non ce la fai più neanche con il tempo, quando hai riscoperto il piacere di vivere, quando tua madre ti ha ridato la vita per la seconda volta, con l'amore che solo una madre può donare, non ce la fai ancora a vedere gli occhi di quella donna che si è presa tutto quello che c'era. Sono ancora lame taglienti, ma lasciarla vincere, lasciare che tutto ritorni come era prima, lasciare che le debolezze ti scavino dentro sino a mostrare che la pelle sono il campo minato dove lotti contro le tue stesse guerre, significherebbe perdere, perdere ancora di più di quanto hai perso. Invece no, parto da me e divento tetto,  certezza, divento mio padre, divento tutto ciò che mi è stato asportato. E' una mutazione che parte dalle ceneri e conduce alla vita.
Un abbraccio
Michi