testo


Questo spazio è dedicato a tutti coloro che vogliono CREARE UNA NUOVA CULTURA SUI DCA. Siete tutti importanti perchè unici, così come uniche sono le vostre storie e i vostri pensieri. Questo Blog resta quindi aperto a chiunque voglia proporre o condividere, perché Mi Nutro di Vita è di tutti ed è fatta TUTTI INSIEME.

mercoledì 30 dicembre 2015

IO SONO LEI COMANDA

Io non sono malata, io sto benissimo. Lasciatemi stare!” Questa era la mia convinzione, “ IO NON SONO ANORESSICA”. È stata la frase che ricordo di aver ripetuto infinite volte, sbraitando come un’indemoniata, dagli occhi rossi e colmi di lacrime ma carichi di rabbia e odio. Tutto il resto è solo un ricordo offuscato e caotico di quel giorno tremendo. Nella mia testa sono rimasti solo flash, frammenti di pochi secondi confusi di pura disperazione e follia. Io, rannicchiata in un angolo dello studio medico, l’infermiera che tentava di avvicinarsi, il mio psichiatra che, irremovibile, parlava di ricovero immediato. E poi, mia madre e mio padre, lì, in piedi, paralizzati, mano nella mano, lo sguardo terrificato. E quegli occhi, gli occhi di mio padre, occhi che mai dimenticherò per il resto della mia vita. C’era una volta una ragazza timida e sensibile ma gioiosa, felice e con una voglia di vivere che forse in pochi potevano uguagliare o superare. Alice era il suo nome, e le stava a pennello, perché il suo mondo era esattamente come quello delle meraviglie. Alice aveva tutto: una famiglia eccezionale, una casa bellissima immersa nel verde della natura, circondata da tantissimi amici. Alice aveva tante passioni, la più preziosa era la cucina, in particolare la cultura e le tradizioni alimentari. Il suo punto debole era la sensibilità che da sempre l’ha resa più vulnerabile alle disgrazie della vita e del mondo. Se non che, in una fredda e tranquilla sera di gennaio, Il paese delle meraviglie dove esistevano amore, amicizia e sogni, fu colpito da un tornado che spazzò via tutto, senza lasciar tracce di colori, allegria. Alice stessa sparì, risucchiata in un buco nero. Ora al suo posto al suo posto c’è un corpo schiavo di un parassita ripugnante che ha rubato la sua anima, rendendola solamente un burattino nelle mani della morte. Quella ragazza diciassettenne ero io, prima di quella sera, che mai avrei voluto vivere. 20 gennaio 2011, precisamente giovedì, quando, in un’atmosfera di risa tra amici, tutti radunati in una saletta, 4 parole sono bastate a stroncare il clima di gioia che aleggiava nella sala: RAGAZZI E’ MORTO CISCO. Paralizzata, non riuscivo a capire, non riuscivo a parlare, non riuscivo a piangere. Penso sempre al mio passato. Ho necessità di farlo, di ricordare. Ho bisogno di chiudere gli occhi e catapultarmi indietro di quattro anni, quando cominciai le sedute settimanali dallo psichiatra, iniziando una cura farmacologica antidepressiva, quando la mia vita iniziò a sgretolarsi senza che me ne rendessi conto e senza pensare a chi mi voleva bene, ma pensando solo a me stessa. Come fossi un kamikaze pronto a farsi esplodere, uccidendosi e uccidendo le persone a me più care. Ma Forza, senso di onnipotenza, ecco cosa sentivo inizialmente, ed è quello che mi ha fregato. Iniziai così a ragionare in maniera perversa: Tutto doveva essere sotto il mio controllo, tutto doveva essere perfetto. vivevo la giornata meccanicamente, ogni azione aveva un suo orario preciso. La scuola diventò un’ossessione, non potevo permettermi di saltare nemmeno un giorno. L’ordine della casa diventò un chiodo fisso, ogni oggetto aveva una sua collocazione stabilita. E, soprattutto, anche il cibo diventò un mania. Mangiavo poco, ma stavo bene, i giorni passavano e mangiavo sempre meno, eppure stavo anche meglio. Smisi quasi totalmente di mangiare e mi sentivo Dio. Spinta verso quel buio pericoloso che non mi spaventava, anzi mi incuriosiva, mi provocava così misteriosamente scuro e tetro dall’odore afrodisiaco, irresistibile. Non potevo fermarmi. L’adrenalina che mi scorreva nelle vene ogni volta che riuscivo a saltare un pasto con l’imbroglio era talmente elevata che mi nutriva, mi sfamava, non avevo bisogno di mangiare, non sentivo la fame. E così andavo avanti, veloce come un Freccia rossa, sicura in tutto e per tutto. Il tempo passava e il mio corpo si alleggeriva Nel frattempo ero diventata un prodigio dell’inganno, maestra nell’arte di raccontare bugie, stratega di pianificazioni atte a evitare di ingerire cibo, ero perfino arrivata al punto di riuscire ad ingannare i miei genitori pure quando ero sotto il loro controllo, tutti seduti a tavola col pasto pronto davanti, riuscivo a finire tutto, ma di quel tutto niente finiva nel mio stomaco. Felpe larghe con tasche capienti, una decina di fazzoletti a disposizione, velocità e attenzione ed il gioco era fatto. Io mi alzavo dal tavolo col sorriso sotto i baffi, felice di non aver mangiato e andavo a “sotterrare i cadaveri nascosti” mentre i miei genitori erano convinti che avessi mangiato. La maturità si avvicinava, io cominciavo ad avvertire stanchezza e fatica. Ricordo i pomeriggi trascorsi a studiare in solitudine, mentre i miei compagni studiavano insieme, scatenando in me senso di abbandono e umiliazione. Ed era così in fondo, mi avevano abbandonata, esclusa. Proprio come accade nel regno animale: se fai parte di un branco devi rispettarne i ritmi, ma se TU piccolo cerbiatto, ti ferisci, sei più debole, lento e rimani indietro, diventando un fardello per i compagni che non si faranno scrupoli ad esiliarti dal branco. Così d’impatto, il cerbiatto si ritrova solo, in mezzo al bosco, dove tutto è più difficile: il cammino, difendersi da bestie feroci e sopravvivere. Ecco, io mi sono sentita un po’ come quel cerbiatto. Arrivai, in ogni caso a dare l’esame di maturità con estrema debolezza fisica e mentale ma ottenendo, comunque, un ottimo risultato. Ero felice, fiera di me e dei miei sforzi, ma sola, fiancheggiata e tenuta in piedi per miracolo dalle persone che amo di più, mia madre, mio padre e mio fratello. Finalmente finita la scuola, data la maturità, si fa festa, mare, sole. Ma non fu così per me. Ero seriamente in pericolo e provarono a spronarmi, aiutarmi, farmi ragionare, ma io non capivo, anzi mi arrabbiavo, pensavo solo “ma cosa vogliono da me, è la mia vita”. La stessa vita che ho messo terribilmente in pericolo, la stessa vita che per poco ho perso. Metà luglio, avevo la morte addosso, devastata irriconoscibile, ossa vistosamente sporgenti, occhi spenti e opachi, pelle grigiastra, capelli deboli, che perdevo al solo passaggio delle dita, fredda, labbra viola in piena estate, ossa dolenti e quel peso che calava, calava, calava. Eppure non mi importava, non mi spaventava di rischiare l’arresto cardiaco né la grave osteoporosi che si stava rosicchiando le ossa, al punto che solo inciampando avrei potuto fratturarmi femore e colonna vertebrale. Insomma vivere o morire era irrilevante, non sentivo più niente, totalmente apatica. Dai 54 chilogrammi iniziali, calai sempre più, sino al momento più critico 35 e poi 32, 30...28 chilogrammi. RICOVERO IMMEDIATO Fui ricoverata al centro disturbi alimentari di Pietra Ligure, Ospedale Santa Corona. Ricordo tutto, dal primo giorno all’ultimo, i pasti consumati silenziosamente, con la paura degli sguardi delle altre ragazze. I pomeriggi trascorsi dormendo, sedata dai farmaci, le attività settimanali, l’infermiera che mi svegliava ogni mattina per misurare la pressione. Ricordo quella maledetta parola urlata dall’infermiera di turno: “TERAPIA” e noi pazienti, in fila per prendere il nostro cocktail di farmaci, un mix di gocce e pastiglie. Ricordo le visite serali dei parenti, quando venivano i miei genitori che accoglievo con sguardo rabbioso. E tutte le sere, quando, sotto le coperte con le lacrime agli occhi e il pianto in gola aspettavo che il sonno mi prendesse, per poi svegliarmi e realizzare che non era stato un brutto sogno, ma il ricovero lo dovevo vivere veramente. Son passati 3 anni da quell’estate, 3 anni difficili, per me e per la mia famiglia. Infatti dopo un graduale miglioramento, sempre seguendo una dieta e visite mensili al centro, ho raggiunto il mio normopeso. Non mi spaventava il mio corpo, né il numero segnato sulla bilancia, era finita. Pensavo di averla sconfitta, di stare bene. Ma mi sbagliavo di grosso. Mi rinchiusi in un’ampolla, protetta da tutto e da tutti. Diffidente, spaventata dalle persone che mi circondavano, avevo paura di fare nuove amicizie, per poi essere di nuovo abbandonata. Passavo i pomeriggi dormendo, ma quella per me era normalità, così mi sentivo tranquilla, ma non mi accorsi del pericolo che stavo correndo, finché non arrivò il secondo schiaffo della morte. Una sera di fine maggio, ero in cucina con mia madre, ridevamo, lei preparava da mangiare, io tagliavo la frutta e improvvisamente il buio. Quando ripresi coscienza, ero circondata dagli operatori dell’ambulanza, che cercavano con forza di caricarmi sulla sedia a rotelle. Fui portata all’ospedale, ricoverata in neurologia. Attacco epilettico, feci vari esami e, infine, la causa di quell’attacco improvviso era dovuta ai farmaci che stavo assumendo, il passaggio repentino da un’elevata dose di gocce ad una ridotta scatenò in me l’attacco. Questo è ciò che vi è scritto nella cartella del ricovero. Ma la verità, è diversa, è stata colpa mia. Sono stata incosciente, stupida. Io ABUSAVO di quel farmaco, gocce che prendevo alla sera, non più di 15, ma io arrivai a finire una boccettina nel giro di 4-5 giorni. Ecco perché dormivo tutto il giorno. Dopo pranzo mi bombardavo di quelle gocce e non so neanche quante ne assumessi, perché le succhiavo direttamente dalla boccettina. Stetti ricoverata una settimana, poi di nuovo a casa. Nel giro di 3 mesi persi di nuovo peso, quasi 10 chilogrammi ero sempre stressata in lite con tutti, soprattutto, con me stessa piena di sensi di colpa per il male causato ai miei genitori. A cavallo tra dicembre 2013 e gennaio 2014 ci fu la grande svolta. Un grave problema di salute riguardante mia madre, fece sì che decidessi di prendermi delle responsabilità, dovevo aiutarla, per farlo dovevo avere energie e per avere energie dovevo mangiare, mangiare di più, controvoglia, con sensi di colpa!? Non importa dovevo mangiare e MANGIAI. Ora ero io che, insieme a mio padre e mio fratello, facendo la mia piccola parte mi prendevo cura di lei. Ed è così che tra mille problemi, lacrime, fatica posso dire: sono ancora viva, malata, ma viva mi trovo ai limiti del normopeso, la strada della guarigione è molto lunga ancora, ma questa volta non ci casco, non abbasso la guardia. Ho imparato molto nell’arco di quest’anno, soprattutto ho accettato il fatto di essere malata, ammettendolo a me stessa e agli altri, senza vergogna, ne parlo spesso ed anche tramite social esprimo i miei sentimenti, il mio dolore, il dolore che prova una qualsiasi donna, ragazza con un problema alimentare. Non voglio smettere di lottare, assolutamente, per me stessa, ma anche per tutte le altre persone con un DCA, voglio far sentire la mia voce. Voglio soprattutto essere la voce di chi non ha più la parola, trovandosi sotto 3 metri di terra, morta di una morte assurda. Morta di una morte ancor troppo poco considerata.
Alice Villa

lunedì 14 dicembre 2015

La guarigione

La guarigione sta, forse, anche nell'assecondare la tempesta e poi lasciare che passi? Come accettare di fare un giro di montagne russe per poi fermare la giostra. Meglio, riuscire a fermarla. Questa è la differenza.
I digiuni hanno fame di abbuffate. E' un cane che si morde la coda. Sappiamo che nel momento in cui rifiutiamo il cibo, quel rifiuto chiede il conto 24, 48 ore dopo eppure lasciamo che accada consapevoli di quanto la debolezza scateni la fame famelica della malattia. Siamo spettatori di noi stessi, ci scrutiamo per agire meglio, per non lasciarci affondare più, per capire cosa ci porta a barcollare e come riprendere l'equilibrio. La guarigione agisce nel momento in cui la malattia sferra solo un colpo, lo incassi, ma poi la metti con le spalle al muro. Fai in modo che si sieda nel suo angolo e se ne stia cauta.
E' una iena, ma sappiamo domarla ormai. Il punto di forza è questo.
Ora, riusciamo a guardare negli occhi la sua fame, riusciamo a guardare quello che ci fa. Quando ci prende la mente nelle sue mani e la sentiamo. E' una questione di attimi, perché nel momento stesso in cui sentiamo che agisce su di noi riusciamo a liberarci dalla sua morsa.
Imparare a domare la tempesta, è questo il punto. Far tornare la calma interiore.
Non può più nulla e la consapevolezza di ciò ci permette di guardarla agire per poterla fermare. Come se la vedessimo dall'esterno per la prima volta, come se ci piegassimo per un attimo illudendola che può vincere. Eppure è solo un tattica. Un modo per distrarla, disarmarla e sferrare il colpo che ci permetterà ancora di riprendere in mano noi stessi.
La guarigione sta nel guardarsi, scusarsi per tutte le volte che abbiamo creduto di non essere abbastanza, per tutte le volte che abbiamo attribuito al cibo la facoltà di parlare per noi, di essere parole, di essere il dolore. Poi scusarsi, ancora, e promettersi di non lasciarsi mai. Promettersi le parole. Il gusto. Se stessi.

Rossella Assanti

giovedì 10 dicembre 2015

Riemergere dall'inconsistenza



Tre pensieri scritti nel pieno della malattia…
Vorrei essere.
Vorrei essere proprio così: diafana, trasparente, percepibile a fatica. Confondermi e sparire nello spazio intorno a me e mostrarmi nuovamente quando quello che posso offrire è di nuovo un sorriso. È inutile esistere il resto del tempo, è troppo pesante per se stessi e per gli altri.
Il rischio però, diventa quello di non ricomparire mai più.
E sarebbe un rischio? No piuttosto una scelta, non abbiamo scelto noi di “essere”, forse, se avessimo potuto, avremmo scelto di “non essere” o di non essere così, o di non essere sempre, di essere a volte, qualche volta sì e qualche volta no, di essere solo in alcuni momenti e tutto sarebbe… ancora più spaventoso.
Forse si deve essere sempre altrimenti non si sarebbe mai e forse si deve essere tutto altrimenti non si sarebbe niente.
Mi capita spesso di pensare “vorrei essere fatta di aria”, mi sentirei così libera, così leggera, così incredibilmente parte del tutto. Ma in fondo sarei nulla.
Allora penso di poter essere qualcosa di diverso ma di ancora più leggero e sfuggente. Vorrei essere fatta di un materiale simile al fuoco. Di fuoco e polvere. Perché il fuoco? Perché è libero, sfuggente, non si può prendere, rinchiudere, segregare, toccare. Forse, solo sfiorare. La polvere serve a darmi la percezione di me stessa, quando voglio esistere aumenta, altrimenti brucia via. E il fuoco, che tende incessantemente a protendere verso l’alto, mi libera di ogni fastidiosa sensazione di attrazione gravitazionale. Ma non è fuoco caldo. La sua anima è ghiacciata. Brucia solo se si prova a toccarlo. Troppo in profondità, con troppa violenza. Altrimenti ha un bisogno disperatamente immenso di essere scaldato, e di voler smettere di bruciare la polvere, di raccogliere tutta la cenere e di nascere nuovamente e riemergere dall’inconsistenza.
Pensiero per il 25esimo anniversario di matrimonio dei miei genitori… in clinica… ripensando alla mia infanzia e agli attacchi di panico che mi straziavano durante la notte…
“Mamma scusami.
Papà perdonami.
Sorellina mia, tu non c’entravi niente.
Mamma, io e te di fronte al nero, io e te di fronte alle mie angosce. Io che mi aggrappo a te, tu che mi prendi in braccio e mi aiuti ad aprire gli occhi, piano piano, e mi spieghi che non bisogna avere paura, che tutto si può affrontare, insieme. Mamma chi sono io e chi sei tu? Chi è che ha paura? Chi è spaventata di più dalle mie angosce tra me e te? Vorrei tanto mettermi così accanto a te. E sentirmi dire che non c’è niente, che i mostri non esistono, che nessuno nel pieno della notte cercherà di pugnalarmi alle spalle, che posso rilassarmi e chiudere gli occhi, e addirittura cambiare posizione nel letto, che casa mia è un posto sicuro, che non devo rimanere sveglia per proteggere mia sorella e voi, che dormite nella stanza accanto; non devo porre attenzione a ogni minimo, flebile rumore. Dimmi che domani mattina sarete ancora tutti vivi e che anche io lo sarò. Ti prego, dimmelo. Muovendomi potrei perdere la concentrazione e allora sarebbe la fine. Morirei e non potrei salvare nessuno di voi. Sto sudando ma ho freddo. Non posso spostare le coperte. Sorellina ti prego svegliati e dì a mamma di portarti un bicchiere d’acqua. Mamma accendi la luce e racconta le favole a Silvia, mi piacciono tanto, mi piacciono quelle che racconti sempre... la signora con la brocca di latte, mi piace come dici brocca, e quella del topolino o il bue e la volpe, mi piace tanto il suono della tua voce, parli così bene…
Ma io non ti ho mai aiutata, non ti ho mai chiesto aiuto, non ti ho mai dato la possibilità di essere la mia mamma. Mamma, scusami, non ti ho permesso mai nemmeno di essere la mamma di Silvia.
Sono una ladra. Ho rubato a te e a papà due figlie e a Silvia due genitori. E cosa vi ho dato in cambio? Che oggi, giorno del vostro 25esimo anniversario di matrimonio non sono con voi, non farete nulla perché, come dice papà, avete altro a cui pensare. Questo altro sono io. No, questo altro siamo noi, è vero, dobbiamo pensare ad altro.
Mi dispiace, avrei voluto metterci di meno a liberarmi di questo cancro. Ma è un cancro della mente, fa parte di me, non so da dove attaccarlo.
Mamma, papà, sento che ci sto riuscendo, non so bene come ma voglio restituirvi tutto ciò che vi ho tolto.
Provo tanta rabbia. Un po’ verso di voi ma, soprattutto, verso me stessa.
Tanta rabbia nei confronti di quella stupida bambina orgogliosa che credeva di essere onnipotente e di poter salvare il mondo. Ma chi ti credi di essere?
Tanta compassione verso quella ragazzina incapace di esprimersi.
Tanto odio verso quella ragazza che ha pensato bene di affidarsi a lei, alla sua migliore amica, alla sua arma più potente… l’anoressia.
Tanta pena verso quella giovane donna che non voleva riconoscersi come tale e giocava con il cibo e con il suo corpo, e non sapeva come scappare da se stessa.
Tanta rabbia, compassione, odio, schifo, nei confronti suoi. Lei, quella parte di me che vuole uccidermi, che gioisce nel sentire il dolore, che esulta quando scopre che ho le ossa bucherellate…sono più leggere, tra poco elimineremo del tutto anche quelle, sta andando tutto a meraviglia. Follia. Penso delle cose orribili.
È lei che cerca di fare del male a tante fragili ragazze che non capiscono con che cosa stanno giocando.
Mamma, lei fa parte di me, ma da adesso in poi sarò io quella figurina che si aggrappa alla tua spalla, e tu l’altra figura che si metterà insieme a me, di fronte al nero. Si mamma, d’ora in poi te lo permetterò, ti permetterò di spiegarmi che per vedere meglio basta solo accendere la luce, lo sai, io preferisco le candele…
Non importa quale luce sceglierai o se riuscirai a trovarne una, la cosa importante è che staremo insieme, mamma e figlia.
Tanti auguri mamma.
Tanti auguri papà.
Oggi è la vostra festa.
Godetevela tutta.”


Francesca Fabiani

giovedì 3 dicembre 2015

Quello che resta della malattia

Tutto ciò che resta della malattia è un eco. E' quella flebile voce che ti fa digerire male l'amore,lo rende indigesto, ti sussurra di non meritarlo. S'insinua nei punti fragili che ti restano, è acqua che cerca il suo varco per inondare il terreno. E' il rifiuto, quel tuo: “No, grazie” ad ogni gesto che ti viene offerto, come se non fossi abbastanza per averlo, viverlo, accettarlo. Quello che resta sono fiammiferi di paure, serve un soffio per spegnerle. Non incendieranno l'anima.
Non restano che macerie, nelle quali affondare le mani per tastare il terreno sul quale ricostruire. Sporcarsi di se stessi.
Quanto pesano i silenzi che diventano mine inesplose nel corpo se non li si mette alla luce? Non pesano. Fluttuano nell'anima nutrendosi avidamente del buio, di quel buio che inconsapevolmente gli diamo, come se fosse il tetto che gli abbiamo costruito sulla testa.
La chiave è partorirli. Partorire bombe di parole, lanciarle nel mondo e lasciare che il mondo le inondi a sua volta, le accolga. Fare in modo che trovino il loro spazio ed esistano. Guardarle vivere. Perché è lì che sono racchiuse le nostre fragilità, quelle che portiamo in grembo, quelle da mettere alla luce per poterle amare. Denudarsi dei timori, guardarli dritti negli occhi. Noi, che troppo spesso li teniamo bassi, quasi a far vincere quella voce affamata che ci alberga dentro, che si prende gli occhi e li avvolge nel timore di non saper essere o di non essere abbastanza. Per guardare. Per essere guardati.
Quasi volessimo conferire cecità al mondo per paura che ci rigetti. Come se fossimo un organo durante un allotrapianto e avessimo paura che le difese immunitarie inizino ad attaccarci, fino all'ultimo, fino a non riconoscerci e rigettarci. Ecco, è questo che resta dei disturbi alimentari, della malattia che abbiamo vissuto: la carne viva della paura. Un pensiero che pulsa sotto pelle e si nasconde tra le retine instabili di sguardi insicuri.
Solo una cosa può battere più forte: la volontà di essere. Ciecamente. Liberamente. Chiudere gli occhi solo per mettere in moto gli altri sensi, la pelle acquisisce una sensibilità maggiore in chi è cieco. Diventa il sentore principale. Permette di vedere la vita toccandola, di sentirla. Permette di sentirsi. E' questa la chiave. Avanzare verso le paure, come in una partita a scacchi. E l'avanzata è già una vittoria.

L'anoressia, la bulimia, i disturbi alimentari hanno fame di debolezze. Siamo noi questa volta a dare loro digiuni.
Rossella