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Questo spazio è dedicato a tutti coloro che vogliono CREARE UNA NUOVA CULTURA SUI DCA. Siete tutti importanti perchè unici, così come uniche sono le vostre storie e i vostri pensieri. Questo Blog resta quindi aperto a chiunque voglia proporre o condividere, perché Mi Nutro di Vita è di tutti ed è fatta TUTTI INSIEME.

mercoledì 28 ottobre 2015

Il ruolo dei genitori

“L'amore che possiamo dare a noi stessi non può darcelo nessuno, neanche una madre”. Questa frase è la chiave che tengo appesa al collo. Il mio post-it della vita.
E' il genitore la salvezza, la via, la vita per una persona nel turbine dei disturbi alimentari? Può essere l'ancora di salvataggio?
Un genitore, un parente o una persona che vive a stretto contatto con la realtà dei disturbi alimentari, ha senza dubbio il compito di modificare determinati atteggiamenti nei confronti di chi ne è affetto. Deve provare a muovere nel modo giusto le corde di questo delicato e complesso strumento che è la malattia. Ma non è certo la salvezza. Da cosa dovrebbe salvarci? Da noi stessi? No, il baricentro di essa è dentro di noi. Spetta a se stessi l'arduo compito di rimettersi al mondo. Rinascere.
E come possono capire loro quanto sia delicato e complessa la bestia che alberga dentro, se nessuno li prende con mano per farglielo vedere?Ai medici spetta il compito di analizzare, spiegare, diventare chirurghi dell'anima. Tante sono le incomprensioni. L'anoressia, la bulimia, i binge, sono il più grande labirinto dell'animo umano. Contorto. Complesso. Diabolico. Tanti sono i genitori che si perdono nella paura, nel dubbio di non sapere cosa fare, come comportarsi di fronte a quell' ingranaggio rotto nel motore della vita dei loro figli, che proprio non vuole partire. Si ostinano a guerriglia-re dietro un piatto vuoto e numeri mortali. Molti non comprendono le dinamiche, i perché, la forza e la fragilità di queste malattie.
D'altra parte è difficile per una persona nel pieno di un DCA accettare la non comprensione da parte di chi le sta accanto. Quanto e come può farlo?
La risposta che ho dato a me stessa è una, impressa a caratteri cubitali nella mente: possiamo accettare questo fatto nel momento in cui capiamo e accettiamo che anche i genitori, come ogni essere umano, ha dei limiti. Che si svincolano dall'amore, non lo compromettono. Quello resta lì, immutabile, infinito, nel più grande angolo di cuore. Il fatto è che spesso nessuno gli insegna la sofferenza che c'è dietro un disturbo alimentare. Nessuno gli insegna l'alfabeto e il linguaggio di questa malattia. Noi possiamo raccogliere le sfumature d'amore nascoste dietro ogni loro singolo gesto, qualsiasi esso sia.
Il resto è nostro compito, come una riabilitazione dopo che ci si è rotti una gamba: bisogna trovare da sé il proprio equilibrio, barcollare, fare un passo alla volta, contare sulla forza delle proprie gambe, del proprio amore.

Rossella

venerdì 16 ottobre 2015

Sabrina



Per raccontare la storia di mia figlia Sabrina, dovrei ritornare indietro negli anni. Io, mamma di Sabrina nasco nel 1944 figlia di n.n. Cresco in un orfanotrofio fino all'età di 16 anni.
Trovo un lavoro e mi sposo nel 1965 con un brav'uomo, mi inserisco in una famiglia, la sua, che mi accoglie e mi vuole bene. L’anno successivo, nel 1966 il 23 maggio nasce Sabrina. E’ bella come il sole. Siamo felici e lei cresce bene. Dopo tre anni arriva Edj, il fratellino, crescono felici e bravi come tutti i bambini. Il destino è in agguato, mio marito si ammala a soli 31 anni di una brutta malattia ai polmoni. Entra ed esce dagli ospedali per ben 16 anni con alti e bassi. E’ un uomo buono e dolce con i bambini, ma riescono a star poco con lui. Muore a soli 47 anni, Sabrina ha 22 anni, Edj 19. Penso col senno di poi e con l’esperienza acquisita in questi anni che, Sabrina abbia incominciato proprio allora a soffrire in silenzio.
Qui inizia il suo calvario.
E’ una ragazza piena di amici. Ha il ragazzo, la storia finisce dopo cinque anni.
Trova un altro amore, sarà quello che le starà vicino.
Sembra apparentemente una ragazza felice, ma qualche cosa sta covando.
Lei incomincia a fare sport, danza, di tutto e di più in maniera ossessiva. La sua dieta, adottando varie scuse, diventa sempre più restrittiva, lamenta una stitichezza ostinata e per anni, di nascosto, assume lassativi, tisane e altro. Si rivolge a specialisti di Milano e Parma.
A lungo andare si rovina l’intestino al punto tale che deve esser operata. I medici le raccomandano di seguire una dieta specifica per lei. Io cerco di seguire alla lettera le indicazioni dei medici, ma lei fa quello che vuole. Si riprende bene. Decide in seguito di andare a Trento con il suo caro Denis, lei lavora come estetista, sembra soddisfatta ma io incomincio a preoccuparmi. Perché direte voi? Sabrina cala di peso, me ne accorgo anche se lei si mimetizza sotto i maglioni larghi.
Davanti alla mia insistenza di voler sapere cosa c’è che non va, mi tranquillizza dicendomi che lavora troppo. Avendo parecchio tempo a disposizione, le preparo le cose che le piacciono, vado nel suo appartamento a Trento e per aiutarla, faccio i lavori di casa, convinta di risolvere il problema, povera illusa! Ma come ho fatto a non accorgermi che era una cosa assai più grave! Passa un po’ di tempo finché un giorno vedendola dimagrita ancora, mi rivolgo al mio medico condotto, il quale mi prepara la carta per un ricovero urgente.
Entra in ospedale, è il suo primo ricovero. Un po’ di flebo, un po’ di integratori ma poca umanità. Le persone come Sabrina venivano viste come capricciose, viziate e come tali venivano trattate. Ritorna a casa, il suo ragazzo e tutti noi cerchiamo di aiutarla, di starle vicino convinti che tutto si sarebbe sistemato. Purtroppo siamo solo all'inizio, i ricoveri si alternano alle dimissioni.
Un giorno in una lettera da consegnare al medico di base c’era scritto: -Sabrina è affetta da anoressia nervosa-. Mio Dio, ma cosa è questa cosa? Consulto un vocabolario, per un attimo ho sentito il peso del mondo sulle mie spalle, ma combattiva come sono, me lo sono scrollata di dosso ed ho iniziato la mia grande battaglia contro l’Anoressia. Brutta bestia, mi dicevo, fatti avanti vedrai con chi hai a che fare! Il tempo passa mia figlia si riprende, sta un po’ meglio e incomincia a lavorare a par-time. Viene seguita da un dietologo, da uno psicoterapeuta e si va avanti. Io divento la sua ombra, ci sono sempre forse troppo e lei diventa mamma dipendente. Sono io che vado in cerca di medici, lavoro per lei, quasi quasi respiro anche per lei. Solo adesso mi rendo conto di quante cose sbagliate ho fatto, ho reso mia figlia ancora più fragile. Ma tenete presente che io avevo dichiarato guerra all'anoressia. Passano i mesi fra alti e bassi finché un giorno il suo ragazzo la riporta a casa. Mi dice che fa fatica a starle dietro, deve lavorare, è via tutto il giorno, Sabrina non era più in grado di lavorare. Rincomincio a vivere con mia figlia e l’ora dei pasti diventa un incubo per lei e per me. Mangiamo assieme, ma lei appena finito corre in bagno. Tento inutilmente di bloccarla, le parlo, la prendo in braccio ma senza risultato. Ho provato a chiudere la porta del bagno e lei vomitava in cucina. La mia battaglia incominciava nel vero senso della parola! La sgridavo, la supplicavo, piangevo, ma lei continuava la sua amicizia con la “Bestia”. Viene ricoverata per la prima volta in psichiatria, aveva acquisito dei comportamenti maniacali. Andando avanti e in dietro da Trento, pensavo a cosa avrei potuto fare perché mi dicevo: io sono sua madre, devo fare qualcosa, io la salverò.
Invece questo ricovero è il primo di una lunga serie durata ben 4 anni.
Entra per la prima volta in una comunità fuori regione, sta 3 mesi, un vero fallimento! Viene mandata a casa perché non collabora.
Trovo un bravo psicoterapeuta, lei si trova molto bene e sembra che le cose vadano un po’ meglio, riprende a fare il suo lavoro a casa con le sue amiche e conoscenti, così si sente gratificata e guadagna qualche soldino. Vedendo che stava un po’ meglio decido di prendermi una piccola vacanza di una settimana. Mio figlio mi rassicura prendendosi l’incarico di occuparsi, assieme a mia nuora, di Sabrina.
Al mio rientro vedo purtroppo che lei è di nuovo in crisi, lì mi prende un grande senso di colpa. Io non dovevo allontanarmi, che razza di madre sono! Sabrina sente che sta male e chiede di essere ricoverata, aveva dei comportamenti maniacali che la portano di nuovo in psichiatria. Vado da lei quasi tutti i giorni, ma lei è angosciata e mi chiede il perché, invece di darle un supporto psicologico, la riempiono di farmaci. Riparte per un’altra comunità, non chiedetemi dopo quanto tempo perché non ricordo più le date, tante erano le entrate e le uscite. Va a Brescia e ci rimane circa tre mesi, poi anche da lì viene messa alla porta. Vengo contattata alle ore 13 circa, mi dicono che devo essere lì entro le 15 altrimenti Sabrina verrà messa su un taxi. Grazie comunità di Brescia per la vostra umanità. Vado a prenderla e si ricomincia di nuovo. Alti e bassi, crisi isteriche, vomitava e poi si sentiva in colpa. Quando lei andava in bagno scappavo e andavo a nascondermi perché se io non ero presente quando lei usciva, non aveva le crisi. Stavo per ore in soffitta, dove da una finestra potevo controllare se Sabrina andava e ritornava. Lei, dovete sapere, dopo aver vomitato, andava sempre al cimitero sulla tomba del suo papà e dei suoi nonni a qualunque ora. Io aspettavo che lei ritornasse e andasse a letto. Dopo un po’, quando pensavo che si fosse addormentata rientravo in casa. Il giorno dopo si ricominciava e a momenti, la disperazione mi portava a pensare di scappare, di farla finita, ma poi il pensiero della mia sfida alla malattia prendeva il sopravvento. La mia cara figlia ritorna nuovamente in psichiatria e da lì riparte per un’altra comunità, questa volta in Piemonte. Ci rimane circa 3 settimane, ma poi scende di peso e sono costretti a ricoverarla in ospedale, ma essendo fuori regione la trasferiscono di nuovo a Trento in psichiatria. Ci rimane un po’ di tempo. Sento parlare di una clinica universitaria a Pisa. Lì sembra siano più preparati e mi faccio in quattro per farla andare giù. Quando ho visto il posto avendola accompagnata con l’ambulanza, ho pensato di essere arrivata nell’anticamera dell’inferno! In questo reparto erano ricoverate, secondo me, le persone senza speranza. I tavoli, le sedie, tutto era inchiodato a terra e c’erano telecamere ovunque. Sabrina finisce subito legata mani e piedi a letto controllata a vista. Io non vorrei discutere sul sistema, ma ancora adesso mi chiedo a cosa è servita questa atrocità. Per poterla vedere partivo da casa alle 3 e mezza del mattino, arrivavo a Pisa alle 13 circa. Potevo stare con lei un paio di ore, andavamo fuori a fare un giretto, poi si rientrava. Credetemi non vedevo l’ora di scappare da lì, avevo il cuore che mi scoppiava. Quando arrivavo avevo una valigia piena di pigiami e asciugamani puliti, quando ritornavo indietro invece la stessa valigia era piena delle stesse cose ma sporche, piene di vomito. Ho chiesto più volte se, essendo lontana, potevo avere modo di usufruire di una lavanderia, ma la risposta era sempre la stessa “No”. Ritornavo a casa con questa valigia pesante che puzzava! In treno, sebbene avessi il posto prenotato, me ne stavo vicina all'uscita perché temevo che le persone sentissero l’odore che proveniva dalla valigia. Arrivavo a casa verso le 24, tutto questo per 4 lunghi mesi. Avevo il cuore pieno di angoscia e dolore, perché vedevo la mia cara Sabrina soffrire tanto, se avessi potuto sarei andata io al suo posto. Viene sottoposta anche all'elettrochoc, senza risultato. Viene rispedita a Trento nuovamente in psichiatria, ma riparte quasi subito per una nuova comunità, Portogruaro. Lì, a differenza degli altri posti, ho trovato umanità anche nei miei confronti, ma eravamo arrivate tardi, la dimisero dopo due mesi circa perché non c’era più niente da fare. Il dottor Salvo, responsabile del centro, ci abbracciò e mi disse sussurrando: mi faccia sapere. Capii subito cosa intendeva dire. Ma io non volevo mollare, non potevo. La mia rabbia verso la “bestia” che mi stava portando via la mia cara Sabrina, aumentava sempre di più. Lei entra in una casa protetta di Trento, la “Casa del Sole”. C’erano persone con svariati problemi, seguite dal centro salute mentale, ma nonostante tutto, si trova bene. Ha la sua cameretta, la sua indipendenza. Io la vedo quasi tutti i giorni e speravo nella mia incoscienza che la sua permanenza lì potesse essere provvisoria. Povera illusa, ma io mi ero mangiata il cervello! Come facevo a non vedere che non c’era più niente, era uno spettro, era trasparente! Il giorno 10 agosto, un giovedì mattina decido di portarle alcune cose che mi aveva chiesto, trovo assieme a lei nella sua camera, il nostro medico condotto. Lui si era preso l’incarico di seguire Sabrina anche lì, la stava visitando. Le finestre sono aperte, è una bellissima giornata. Mi mette una mano sulla spalla e mi dice: sua figlia se va avanti così non arriva alla fine del mese.
Mia figlia ignora le parole del dottore e se ne va a fumare. Io scoppio a piangere, Sabrina ritorna e mi dice: non piangere per me, perché questa non è vita! Io l’abbraccio la accompagno di sotto al sole. Mi allontano, salgo in macchina, la guardo per l’ultima volta nello specchietto retrovisore, consapevole che forse era l’ultima volta che la vedevo! Non so come ho fatto ad arrivare a casa. Verso le 19 dello stesso giorno, arriva una telefonata dalla “Casa del Sole”: venga giù sua figlia non sta bene. Parto consapevole che Sabrina non c’era più.
Maledetta Anoressia, hai vinto tu. Sabrina è sul letto, ha gli occhi aperti, azzurri; ha uno sguardo dolcissimo. Mi siedo sul suo letto, la accarezzo, la bacio per l’ultima volta. Addio adorata figlia mia, raggiungi pure il tuo caro papà e i tuoi nonnini come tu li chiamavi, ma ti prometto che finché avrò la forza: lavorerò in nome tuo, perché nessuna madre, nemmeno la peggiore, dovrà mai vedere morire una figlia così.
Ti prometto che farò tutto il possibile per aiutare quei poveri genitori che si troveranno ad affrontare la “Bestia”. Ce la sto facendo, faccio parte di un associazione: l’ARCA, sono una volontaria. Quando parto da casa per fare il mio dovere di volontaria, guardo la foto di mia figlia, la saluto e le dico: aiutami, stammi vicino. Vi assicuro che all’ARCA c’è pure lei!
CIAO SABRINA NON TI DIMENTICHERO’ MAI!!!
MAMMA

Anneliese Zanon                                         



lunedì 12 ottobre 2015

Sentirsi liberi di sentirsi umani


Cerco affetto, sento il bisogno di sentirmelo addosso. Cerco attenzioni ma forse a modo mio, ricevere e liberarsi allo stesso tempo da esse. Liberarsi da quelle attenzioni che mi hanno sempre innalzato su un piedistallo, al di sopra di tutto e di tutti.Cerco affetto che non si traduca in attenzioni come modo per dire ‘Ecco la Principessina’. L’intoccabile, l’infallibile….Io sono ‘solo’ Rosy e come tale voglio essere trattata e considerata. Umana, con i suoi pregi i suoi difetti. Mi si deve mandare a quel paese che lo si faccia! Affetto e non un’aura di soprannaturalità che non riesco più a sentirmi addosso, non mi appartiene. Io carne e ossa come tante persone. Speciale, un appellativo che mi sta soffocando. Mi fa sentire estremamente idealizzata. Io non ho bisogno di essere idealizzata, ho bisogno di sentire le mie debolezze, la mia umanità, la possibilità che anche io posso, mi sia concesso di sbagliare e che ho diritto, posso ricevere affetto nonostante non sia perfetta.Vivere nell'idealizzazione significa dover rispettare aspettative che possono condurti all'autodistruzione. Anche aver dimostrato una certa forza fino ad oggi paradossalmente non mi ha aiutato. Si è tradotta in un delirio di onnipotenza come risultato della proiezione di quell'immagine della Rosy ‘speciale’, perfetta, infallibile.Una forza che ha sempre dovuto nascondere ogni sentore di debolezza, fragilità, di un semplice ‘Non ce la faccio’ .Onere, responsabilità ai quali sembra non possa assolutamente sottrarmi. Non voglio più stare su un trono, troppo scomodo per me. Una posizione investita di preziosità e regalità che mi fanno sentire inarrivabile.
Rosy

lunedì 5 ottobre 2015

Fame d'amore





Placare la fame d’amore, placare quella per il cibo. Due bisogni che per quanto possa sembrare assurdo possono essere legati da un filo invisibile, un filo conduttore che li mette continuamente in comunicazione rendendoli un’unica cosa. L’amore come il cibo fonti insostituibili alle quali attingere per stare al mondo, per vivere. Eppure si può, ci si impone di placarle nel momento in cui diventano demoni. La fame d’amore se non viene appagata, se non si trova la giusta strada per far si che quell'amore ti riempia in maniera naturale sentendo tutta la sua magia, non solo ti spaventa e tendi ad annullarla ma cominci a percepire quell'amore solo come qualcosa di irruento, che ti aggredisce, che ti investe fagocitandoti senza abbracciarti con tutto il calore possibile e immaginabile…quel calore si trasforma in fiamme che ti consumano bruciandoti o scompare totalmente per far posto a un gelo paralizzante. Lo spirito non riceve, o meglio non deve ricevere alcun nutrimento così come il corpo. Il mondo dello spirito così come quello del corpo possono sentire alla stessa maniera, non si è solo spirito o soltanto corpo non esiste o…o, entrambi costituiscono un tutt'uno, se soffre l’uno soffre anche l’altro. Se l’uno non è in grado di vedere anche l’altro diventa cieco. Poi un giorno ti capita una cosa inaspettata e straordinaria allo stesso tempo. In uno dei miei momenti più critici , quando ho cominciato a sentire fame di cibo, a riconoscerla, ad ammettere di sentirla, nonostante la cosa mi potesse sconvolgere, contemporaneamente sono riuscita a percepire quella fame d’amore per me ormai sconosciuta. Se fino a quel momento il ‘NON DEVI SENTIR IL BISOGNO DI UNA CAREZZA, DI UN ABBRACCIO, DI UNO SGUARDO ‘INNAMORATO’’ non mi aveva mai mollato e si muoveva di pari passo con l’imperativo ’NON DEVI SENTIR IL BISOGNO DI CIBO’ , la necessità di sentire il cibo in bocca e nello stomaco e di ‘RIEMPIRMI’ si affacciava piano piano insieme al bisogno di sentire l’affetto e l’amore di mia madre, di RIEMPIRMI di esso. Ricordo ancora quella telefonata mentre ero in clinica ’Mamma mi manchi, vorrei un tuo abbraccio. Per me udire quelle parole dalla mia bocca è stato qualcosa di indescrivibile soprattutto se penso a chi erano rivolte, mia madre. Sentirmi in quel momento significava voler sentire, voler ricevere, essere accolta ed accogliere. Riconoscermi ed essere riconosciuta. Stavo ascoltando i miei bisogni, che rivelazione! Ed ora ogni giorno per me è una rivelazione, una sorpresa. Piano piano sto scoprendo cosa significa tutto questo, non sto imparando ad amare e a ricevere amore, non possiamo ridurre tutto a delle nozioni a dei parametri da seguire. L’amore non si impara si vive….

Rosy