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Questo spazio è dedicato a tutti coloro che vogliono CREARE UNA NUOVA CULTURA SUI DCA. Siete tutti importanti perchè unici, così come uniche sono le vostre storie e i vostri pensieri. Questo Blog resta quindi aperto a chiunque voglia proporre o condividere, perché Mi Nutro di Vita è di tutti ed è fatta TUTTI INSIEME.

venerdì 21 maggio 2021

Reimparare a emozionarsi. Laboratorio del 18 Maggio.

Il laboratorio è cominciato con una domanda specifica posta da una mamma: “ quando tua figlia o figlio che soffre di un disturbo alimentare continua a provocarti, attaccarti, tu genitore cosa devi fare? Controbattere o stare in silenzio?” 

La risposta, come abbiamo detto più volte, ovviamente non può  essere univoca. Sarebbe troppo facile avere una risposta pronta per ogni occasione. E siccome questo non è possibile, occorre far riferimento alle diverse situazioni in cui si verificano tali attacchi. In  riferimento alla storia di questa mamma, lo scontro verbale si è verificato durante la cena. Come  sappiamo, il momento dei pasti è sempre critico, poiché la malattia è molto presente ed è difficile che dietro ad una eventuale provocazione si possa instaurare un dialogo costruttivo. In queste occasioni è quasi sempre preferibile non discutere su nulla, poiché qualsiasi cosa può essere usata come espediente per portare avanti la discussione e quindi spostare l’attenzione. Ma spostare l’attenzione da cosa? Qui abbiamo ripetuto un concetto che spesso emerge durante il laboratorio e che non ci stancheremo mai di ripetere perché rappresenta una base importante su cui riflettere quando accadono simili situazioni. 

Davanti a noi vediamo quella che è solo la punta dell’iceberg, ovvero quella provocazione. Quello che però sta al di sotto, il sommerso, non è visibile agli occhi. E nel sommerso ci sono le emozioni che la propria figlia o figlio sta vivendo. Emozioni che spaventano, perché in effetti si è davanti a una grande paura che viene simbolizzata attraverso l’assunzione del cibo. Anche un’altra mamma ha raccontato che, nonostante la figlia abbia cominciato a progettare una propria vita indipendente, incominciando ad affrontare il delicato mondo del lavoro, non è ancora riuscita ad abbandonare la bulimia, che al contrario, la accompagna con costanza, a volte anche in modo violento. Anche qui però, ciò che si osserva è solo la punta dell’iceberg ( la crisi bulimica) ma il sommerso, le emozioni, non sono visibili. Ma che cosa potrebbe esserci in questo sommerso che porta a far emergere sempre e solo il sintomo? Questo è un argomento un po’difficile da trattare, ma è necessario farlo per cercare di portare chiarezza su alcuni aspetti della malattia del comportamento alimentare. Il sintomo, non è un qualcosa che improvvisamente si è calato nella mente dei propri figli e, con abile destrezza, si è divertito a scombussolarne i pensieri, le idee, le percezioni. Il sintomo in realtà si fa portavoce di quella parte che non ha trovato un modo migliore per esprimere e comunicare quel malessere di fondo che nasconde la paura di vivere, la paura di affrontare la vita. Ma il sintomo in realtà non è qualcosa di completamente
estraneo alla persona. Ovvero. Non è che improvvisamente i propri figli vengono posseduti da chissà quale forza demoniaca che ne ha rapito la loro essenza. In realtà ciò che prende il sopravvento in una malattia del comportamento alimentare è quella parte di se’ che ha il compito di controllare, decidere e far mantenere le regole. Semplificando, potremmo dire la parte etica che è in ognuno di noi. Una parte che deve dialogare con le altre parti, per riuscire a stabilire quello che è un adeguato equilibrio.


Ora, riprendiamo la situazione di questa mamma che si trova a vedere che la propria figlia sta cominciando a progettare una sua vita autonoma, ma con la malattia ancora ben presente. Perché il sintomo non abbandona la figlia? Che cosa è che la porta ancora a rifugiarsi in quelle dinamiche così incomprensibili viste da fuori ( o più precisamente viste solo guardando la punta dell’iceberg)? In realtà ognuno di noi non può mai sapere la lotta interna che sta affrontando l’altra persona. Visto dall’esterno quella situazione può essere uguale a tante altre situazioni vissute apparentemente sempre in modo uguale, ma che così uguale in realtà non è. Infatti, c’è una fase del percorso della cura in cui guarigione e malattia camminano parallele ( lo abbiamo descritto anche in altri laboratori). Ma perché accade questo? Perché quella parte che si manifesta attraverso il sintomo è una parte della persona e come tale non può essere cancellata da un momento all’altra. Finiremmo per avere una persona monca, a cui le è stata tolta una parte importante di se’. E questo è impossibile. La guarigione richiede tempi lunghi perché quella parte “etica” che ha preso il sopravvento deve gradualmente ricominciare a dialogare con tutte le altre parti. E soprattutto, deve integrarsi e trovare il proprio posto. Affinché possa avvenire questo dialogo e integrazione, è necessario che la persona venga a diretto contatto con questa parte di
se’. E questo non è mai facile, a volte il risultato è un aggravarsi del sintomo. Qui è molto difficile per il genitore capire cosa stia accadendo, perché è sempre la punta dell’iceberg che si sta osservando. Viene in automatico che un genitore si preoccupi e giustamente cerchi di gestire lui stesso quella ripetuta situazione del figlio o della figlia. Ma in realtà, questo è un passaggio che non può avere sostituti. Per poter integrare ed equilibrare le varie parti di se’, occorre guardarle direttamente in faccia. Come è stato detto da una ragazza che ha raccontato quella che è stata la sua esperienza della guarigione, imparare a stare in quel vuoto, in quell’ emozione che spaventa. Infatti, solo restando nella paura si può cominciare a conoscerla e gestirla, riducendone l’intensità con il quale si manifesta. Da fuori potrebbe sembrare che si stia ritornando a riabbracciare la malattia, in realtà si sta andando a riconoscere se stesse. Si sta andando a fare esperienza di ciò che più spaventa. Si va a fare conoscenza diretta della propria ombra. Ognuno di noi è sia ombra e luce. In una malattia del comportamento alimentare prevale esclusivamente l’ombra....ma è da quel timido bagliore di luce che comincia la risalita verso se stesse. 

In questo discorso, è importante anche includere quei genitori che hanno figli o figlie maggiorenni che rifiutano di intraprendere un percorso terapeutico. Dato che non si segue un percorso di cura, vuol dire che la speranza di arrivare ad una guarigione è da abbandonare completamente? Anche qui il discorso è complesso da affrontare, ma riprendendo il concetto dell’ombra che prende il sopravvento sulla luce, quest’ultima può ritornare a risplendere anche attraverso un percorso non psicoterapeutico ma più olistico. Ad un certo punto, può accadere che la persona stessa senta il desiderio di approfondire certe cose di se’ e quindi affidarsi a una terapia. Questo per dire che non sempre la guarigione inizia da un percorso terapeutico, a volte può cominciare da un approccio olistico. Resta però inciso che la conoscenza di se’, e quindi l’affrontare direttamente la malattia, richiede un lavoro più approfondito, 

Una mamma ha condiviso la storia di sua figlia adolescente. Considerata sempre la classica alunna modello, diligente, educata, con bei voti a scuola. La perfezione. Finché non è giunta la malattia. Ovviamente, la madre ha cominciato subito a pensare dove avesse potuto sbagliare. Un giorno, grazie a una telefonata di un’altra mamma, è venuta a sapere che sua figlia stava vivendo seri episodi di bullismo a scuola. Questo è stato un fattore che ha inciso in modo importante nell’indole dolce e  sensibile di questa ragazzina, che ha finito col cercare rifugio nella malattia. Ritornando al discorso delle emozioni, possiamo notare quanto l’incapacità di gestire ciò che accade possa poi indurre a far credere che il rifiuto, o al contrario la consolazione del cibo, possa essere la soluzione giusta nei confronti di quel malessere di fondo. Questa mamma ad oggi considera la malattia il mezzo attraverso il quale ha potuto conoscere realmente sua figlia, scoprendo che la vera bellezza sta proprio nell’imperfezione. Si, perché tutto ciò che è perfetto in realtà manca di animosità, è freddo, prevedibile, privo di reale emozione. Sul tema del bullismo, è intervenuta un’ insegnante di una scuola primaria. In questo periodo di pandemia, è emerso quanto sia importante per i suoi giovani alunni poter condividere le ore scolastiche tutti insieme. Da qui è nata l’idea di un laboratorio di scrittura, in cui i bambini possono esprimere e tradurre a parole quelli che sono i loro desideri, le loro gioie, ma anche le loro paure e difficoltà. Quello che è emerso è stato di una bellezza indescrivibile poiché i bambini hanno la naturale curiosità di esplorare ed esplorarsi. E lo fanno con quella purezza che è da alimentare e preservare anche attraverso queste importanti attività scolastiche che sono fondamentali nella crescita di un bambino. 


Un’altra mamma, insegnante di una scuola media, si trova invece ad affrontare il disagio di una ragazzina di 12 anni che ha palesemente chiesto aiuto ai suoi insegnanti per il malessere che sta vivendo e che dimostra anche nei confronti del cibo. Questa mamma, conoscendo per esperienza personale la pericolosità di certe dinamiche che portano poi a una malattia del comportamento alimentare, ha cercato di sensibilizzare anche gli altri docenti, ma ha riscontrato quanto le altre persone ancora non conoscano bene queste malattie e spesso minimizzino i segnali attribuendoli a forme di imitazione dei modelli proposti sui social. Ancora una volta è emerso quanto ci sia da lavorare affinché le malattie del comportamento alimentare possano essere riconosciute nelle loro manifestazioni, e quanto sia importante che ci sia conoscenza, sensibilità e rete sociale, iniziando non solo dalla famiglia, ma anche dalla scuola che ha il compito e il dovere non solo di istruire ,ma anche di difendere.


La frase della settimana: REIMPARARE A EMOZIONARSI

giovedì 6 maggio 2021

Il sintomo è portatore di significato - Laboratorio 4 Maggio

Il laboratorio di questa sera è stato molto ricco di condivisioni, storie, riflessioni che aprono sempre nuovi spiragli sul vissuto di ognuno di noi.

La situazione che stiamo vivendo in questo periodo ha messo alla prova molti genitori che si trovano ancora più stanchi nel dover affrontare un disturbo alimentare che sappiamo bene quanto lasci stremati e senza forze. Una cosa importante da sottolineare sempre, è che spesso si rimane intrappolati nell’ osservazione di ciò che appare visibile ai nostri occhi: ovvero il sintomo. Ma per comprendere e saper affrontare il disturbo alimentare, serve andare al di là di esso per cercare di capire cosa questo ci voglia dire. Infatti, se si rimane fissi solo sul sintomo, si finisce col percorrere un’unica strada, quella della malattia. Eppure, anche se sembra paradossale, il sintomo è arrivato per far sì che si vadano a riaprire delle “porte” che sono state inavvertitamente chiuse e che ora reclamano di essere riaperte. Porte che appartengono sia al figlio/figlia, sia ai genitori.


Perché abbiamo detto questo? Perché la malattia percorre delle fasi ben precise, non si passa improvvisamente dallo stare male allo stare bene. Questo richiede molti passaggi che spesso passano attraverso l’apparente ritornare indietro. Dico apparente perché quando si ritorna a mettere in atto dei meccanismi della malattia che sembravano superati, in realtà i figli stanno vivendo un momento particolare del loro percorso. Un momento che può essere dettato da tante cause, anche il dover affrontare qualcosa di spinoso emerso in terapia. Ci si spaventa, e non avendo ancora acquisito strumenti nuovi per affrontare eventuali difficoltà, si torna a riabbracciare la finta sicurezza e controllo che da’ la malattia. Il genitore ovviamente vede però il sintomo, non ha la possibilità di comprendere la battaglia interna dei proprio figlio/figlia. Entrambi è come se si trovassero incastrati nelle proprie paure, che portano a creare ulteriori incomprensioni e conflitti all’interno del nucleo familiare. E qui, come sappiamo bene, il disturbo alimentare prende il sopravvento.
Spesso accade poi, soprattutto quando ci sono fratelli o sorelle, di dimenticarsi che anche loro sono parte della famiglia. Spesso i bisogni, i desideri, anche le paure stesse degli altri figli non vengano viste e riconosciute con il giusto valore, quasi fossero di minore importanza rispetto a quelli della figlia o figlio che soffre di un disturbo alimentare. Capitano situazioni in cui, alla richiesta dell’altro figlio/figlia, si sono pronunciate frasi del tipo: “ non possiamo andare in pizzeria perche’ tua sorella poi reagisce male”... oppure: “ dobbiamo cenare a tale ora perché altrimenti tuo fratello salta il pasto”.. dimenticandoci che i bisogni, le esigenze e anche la sofferenza degli altri figli devono essere riconosciute. Infatti, non dimentichiamo che anche loro soffrono nel non avere più il rapporto che avevano prima con la sorella o il fratello malato/a di un disturbo alimentare. Lo stesso discorso vale anche per la coppia marito e moglie. È importante ridefinire i propri spazi e ruoli, dedicandosi tempo e non sacrificandosi perché si ha paura di lasciare i propri figli soli in casa.


Una mamma ha raccontato il difficile momento che sta vivendo con la figlia che, ricaduta in frequenti crisi di bulimia generate dal sentire un grande senso di vuoto interno, arrivata al limite della situazione creatasi, ha reagito urlandole contro di non sopportare più di vedere in lei quella totale inerzia e apatia. Queste urla sono state dettate non solo dalla grande sofferenza di questa mamma, ma anche da un suo volerla scuotere per vederla reagire in un qualche modo. Così, senza aspettare da lei di avere una risposta su quello che avrebbe voluto per pranzo, la mamma è uscita a fare la spesa e al momento del pasto, ha detto solo che era pronto. La figlia, senza fare alcuna protesta, ha mangiato e poi è andata a lavorare. Il giorno dopo si è svegliata presto provvedendo, come non faceva da giorni, a occuparsi delle sue cose personali, ringraziando infine la madre. Come se quella sfuriata l’avesse momentaneamente ridestata. I genitori spesso sono lasciati soli ad affrontare il delicato momento in cui i propri figli, dopo un lungo periodo di terapia, incominciano a sperimentarsi nell’ affrontare quella che è la vita, anche nelle sue “banali” incombenze quotidiane. Dico periodo delicato poiché è solo facendo esperienza del disequilibrio che si impara a trovare il proprio baricentro. 

Ma assistere alla costante alternanza giù e su, sfianca e getta nella paura totale un genitore che ha già visto più volte il ripetersi di quel meccanismo perverso che sembra inghiottire il figlio/figlia. Ma ci tengo a sottolineare, che anche questo fa parte del percorso di cura, quello che invece a volte ne sono esclusi da questo processo, sono i genitori, che si ritrovano risucchiati non capendo cosa sta di nuovo accadendo . Ma ripeto, ogni fase è diversa, ogni crisi non è mai uguale alle precedenti, non è mai un ritornare indietro, perché nel frattempo chi sta cercando di guarire dalla malattia, si sta anche mettendo in gioco. Diventa allora ancora più importante che i genitori possano avere modo di parlare di quello che sentono, pensano, vivono poiché tutto ciò che viene tenuto dentro di se’, si cristallizza in una visione a senso unico . Al contrario, attraverso la parola condivisa, diamo espressione al nostro sentire, lo elaboriamo riuscendo a darne una prospettiva diversa. Un’ altra mamma ha raccontato di come sia stata dura anche per lei accorgersi che aveva talmente focalizzato la sua attenzione sulla figlia malata da essersi dimenticata degli altri suoi figli.
Grazie alla terapia, ha capito che non poteva estraniare il resto della famiglia per proteggerne uno solo. Ognuno aveva bisogno della stessa cura, tempo, dedizione ma anche conoscenza della malattia stessa, per imparare a relazionarsi con questa e quindi a non averne paura. Questo è basilare per i rapporti e l’equilibrio dell’ intero nucleo familiare. E qui torniamo al discorso di prima, al non fermarsi a vedere solo il sintomo ma andare al di là di esso per capire cosa voglia dirci. Infatti, è importante allenarsi costantemente a distinguere quando parla la malattia da quando parla la persona. Questo è essenziale per avviare una comunicazione che sia costruttiva e soprattutto che non vada a sostenere ulteriormente il disturbo alimentare.


Una mamma ha raccontato di quanto sia difficile in questo periodo subire gli attacchi aggressivi della figlia che rinfaccia continuamente ai genitori di averla costretta a intraprendere un percorso terapeutico contro la sua volontà. In realtà questo è un tentativo della malattia di scaricare sui propri genitori ogni responsabilità, compreso l’intero peso della propria sofferenza. Come è accaduto nel racconto precedente della mamma che si è lasciata andare a una sfuriata per ribellarsi a quel peso diventato insopportabile e ingiusto da sostenere. È necessario quindi saper distinguere bene chi è che parla quando si è in presenza del figlio o figlia malato/ malata di un disturbo alimentare, perché permette di acquisire strumenti per respingere le richieste manipolatorie della malattia. Spesso accade che la figlia/figlio ringrazi i propri genitori per non aver dato spazio al disturbo alimentare. So che è difficile da comprendere, ma affinché si possa arrivare alla consapevolezza di prender in mano la propria vita, occorre fare esperienza del vuoto, del non trovare nessuno che “appoggi” le manovre manipolatorie della malattia. Questo fa si che la persona si trova a diretto contatto con la propria sofferenza realizzando che tutto quello che ha messo in atto fino a quel momento attraverso il disturbo alimentare non è che una realtà distorta che l’ha tenuta lontana dalla sua vita e dai suoi cari.


Un’altra mamma ha condiviso quanto sia importante per lei il ruolo che i genitori hanno. Sono, come spesso abbiamo evidenziato nei laboratori, una risorsa. Attraverso un percorso sia di terapia familiare che individuale, questa mamma è riuscita a sintonizzarsi sulla sofferenza della figlia, che spesso ricorreva anche all’autolesionismo. Sintonizzarsi non significa fondersi con quel dolore, ma anzi, significa distaccarsene per poi poterlo riconoscere e accogliere come parte dell’altro e non di se’. Certo, questa mamma ha corso dei rischi permettendo alla figlia di restare sola nella propria sofferenza, poiché poteva farsi ulteriore male. Ma aveva compreso che lei, come genitore. stava agendo spinta prevalentemente dalla sua enorme paura per quello che poteva accadere. Così, doveva essere lei madre a sganciarsi per prima da quel meccanismo per far sì che la figlia potesse ritrovare se stessa. Non è stato ovviamente facile. Ma non dimentichiamoci che i genitori, sia la madre che il padre, sono coloro che hanno creato con i propri figli un legame molto forte, un legame costruito su una comunicazione che non necessita di parole. Ed ecco ritornare a quelle “porte chiuse” citate all’inizio.


Il sintomo arriva per portare la famiglia a riaprire porte che sono state chiuse e ora reclamano di essere riaperte. Il sintomo arriva per riportare la famiglia a riprendere in mano quella comunicazione profonda che in qualche modo si è interrotta o ha cambiato direzione. La guarigione ha bisogno di ritrovare questo legame, ritrovare le proprie radici per radicarsi e crescere saldi e stabili. Pensiamo agli alberi. Per svilupparsi, hanno bisogno di avere spazio intorno a se’, necessitano sia di una vicinanza data dalle rispettive radici, sia di una giusta distanza affinché i rispettivi rami non si vadano a intrecciare tra loro, soffocandosi a vicenda. 


La frase della settimana : IL SINTOMO È PORTATORE DI SIGNIFICATO