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Questo spazio è dedicato a tutti coloro che vogliono CREARE UNA NUOVA CULTURA SUI DCA. Siete tutti importanti perchè unici, così come uniche sono le vostre storie e i vostri pensieri. Questo Blog resta quindi aperto a chiunque voglia proporre o condividere, perché Mi Nutro di Vita è di tutti ed è fatta TUTTI INSIEME.

venerdì 27 settembre 2019

Vestir-si


Un vestito può fare la differenza. Un vestito può significare molto di più che un semplice indumento per coprirsi o apparire. Chi ha sofferto o soffre di un disturbo alimentare non ha un bel rapporto con l'abbigliamento. Pantaloni sempre più larghi, maglioni sempre più enormi, taglie che sembra facciano il conto alla rovescia. Sono tessuti che ti inglobano, ti inghiottono, annullano la tua forma. I vestiti danno anche un'identità, un riconoscimento, dunque vedendosi sformati non ci si può sentire definiti, realizzati. Mi piace indossare il body a danza perché così mi sento più ballerina, mi sento più sicura di esserlo. Ma quando stavo male nessun vestito riusciva a farmi sentire me stessa, semplicemente perché i vestiti dei quali avevo bisogno non erano materiali. Per guarire, occorre vestirsi di sicurezza, di coraggio, di amor proprio, di consapevolezza, bisogna entrare nei panni di se stessi, e sono solo quelli i vestiti che donano più di tutti. Anche se si indossa lo stesso vestito di anni fa, non significa che si stia vestendo la stessa persona di anni fa. Anche se dei pantaloni che un tempo ci stavano larghi ora stringono un po', non vuol dire che prima fossimo noi stessi ed ora non più, anzi, è proprio il contrario, è solo quando riusciamo a percepire la nostra presenza che possiamo distinguerci dal vestito stesso. Se un capo ha delle mancanze, fa sentire un vuoto anche a chi lo indossa. Io, mi sentivo addosso un abisso che creava dentro me una voragine profonda, e un giorno allo specchio mi sono detta che quei vestiti non potevano rappresentarmi, non volevo essere uno spazio da riempire ma una presenza da vedere. Riempire dei vestiti è solo una conseguenza derivante dal riempire la propria anima, come vestire se stessi è la premessa per non dover più sentire quel vuoto, e se ci ricordiamo questo sfileremo a testa alta per il resto della vita consapevoli che qualsiasi cosa indosseremo non andrà a coprire chi siamo realmente.

Elisa


martedì 17 settembre 2019

Dall'Anoressia al Binge...alla Vita!



Fin da piccola, ho sempre avuto timore dei miei genitori.
Non hanno mai accettato il fatto che io fossi diversa da come loro avrebbero voluto.
A un certo punto, allora ,pensai che l'unico modo per ricevere un po' più di affetto fosse quello di reprimere la mia personalità, chinandomi il più delle volte al loro volere.

All'età di 7 anni, mi autoimposi persino di non piangere la morte improvvisa e precoce del mio caro zio, che per me era come un fratello, in modo tale che i miei genitori pensassero che fossi una bambina forte e da allora cominciai a chiudermi sempre più in me stessa.

Con il passare del tempo, iniziai poi ad accorgermi che c'era qualcosa in me che non andava , che mi faceva sentire sempre fuori posto e diversa dagli altri. Solo a 20 anni, ho scoperto che si tratta di un malfunzionamento del sistema nervoso involontario, a cui c'è una cura parziale, che consiste in un intervento,che spero un giorno di poter fare.

All'età di 11 anni mi fu diagnosticata una scoliosi idiopatica, che a tutt'oggi mi accompagna.
Da quel momento cominciai a desiderare a tutti i costi un corpo perfetto, iniziando cosí a perdere peso, considerato il fatto che sin da piccola mi era sempre stato detto di avere troppa "ciccia". 
Entrai così inconsciamente nel tunnel dell'anoressia nervosa, che mi ha accompagnato per circa 6 anni.
In realtà, però, quella fu solo la goccia che fece traboccare il vaso perché quell'ossessiva ricerca della magrezza era un modo per "evadere" da un ambiente familiare che diventava sempre più opprimente e da una realtà sociale in cui mi sentivo costantemente a disagio.
In quegli anni iniziai anche a soffrire di disturbi gastrointestinali, che contribuirono ad alimentare sempre più il mio odio verso il cibo.

All'età di 17 anni, schiacciata dal peso dei numerosi problemi che invalidavano la mia vita quotidiana e mi impedivano di guardare al futuro, e frustrata per il fatto di sentirmi così sbagliata e di non essere compresa da nessun membro della mia famiglia, che sembrava fingere di non vedere i segnali che ogni tanto lanciavo, scambiandoli per semplici capricci, iniziai pian piano ad ammalarmi di Binge Eating.

Quel grido di aiuto lanciato dal mio corpo, forse per acquisire visibilità, si trasformò nel peggiore dei mostri contro cui abbia mai combattuto, in grado di divorare la mia anima giorno dopo giorno, abbuffata dopo abbuffata , e di portare il mio corpo in un stato di totale malessere... un mostro che non solo mi ha fatto del male, ma che ha permesso che anche gli altri ,durante quel periodo, me ne facessero...

Ogni giorno, guardandomi allo specchio, provavo disprezzo per la persona che ero diventata e sempre più pensieri suicidi continuavano a farsi largo nella mia testa ,ma non riuscivo a fare nulla per cambiare la mia condizione, perché quel mostro aveva preso il sopravvento su di me.

Dopo quasi 3 anni, che per me sono stati un un autentico inferno, finalmente per me è arrivata la luce. 
La mia ultima abbuffata del 1 Giugno 2018 mi distrusse a tal punto da farmi capire che, per essere ascoltata, non dovevo farmi del male, ma dovevo urlare più forte che potevo.Il 2 Giugno 2018 iniziai il mio percorso per uscire dalla spirale del DCA contando, con coraggio, esclusivamente sulle mie forze.

Durante questo cammino, non ancora del tutto terminato,fatto di introspezione e ricerca di me stessa, molti sono stati gli alti e bassi e altrettanti gli ostacoli da superare ma, nonostante tutto, ho sempre cercato di tenere bene a mente il mio obiettivo, dandomi forza anche quando sembrava stesse per crollare tutto.

Ho avuto bisogno di molta stabilità e affetto, che in particolare la mia mamma non mi ha fatto mancare, perché alla fine, nonostante le nostre numerose incomprensioni, è riuscita a cogliere i segnali che ho lanciato.

Nella mia lotta contro i disturbi alimentari, ho imparato che in alcune circostanze le parole non dette sono in grado di ucciderci, poiché esse non svaniscono, ma scavano lentamente dentro di noi senza che neanche riusciamo ad accorgercene.
Ho imparato a non dar credito a ciò che dice la gente, perché quello che conta davvero è l'opinione che ognuno di noi ha di sé stesso, e che nessuno ha il diritto di decidere della nostra vita, perché siamo noi a scegliere la nostra strada e solo il tempo potrà dirci se le decisioni prese siano state giuste o sbagliate.
Infine, ho imparato a mostrarmi per quella che sono, a volermi bene, a sentirmi finalmente "abbastanza", senza paragonarmi agli altri e a non arrendermi davanti alle avversità, ma a combattere con le unghie e con i denti, anche quando siamo noi stessi ad essere il nostro peggior nemico.

Il mio cammino verso la vita prevede ancora molte tappe, ma l'aver trovato la strada giusta per superare i disturbi alimentari ha riacceso in me la speranza, mi ha ridonato la libertà e mi ha fatto capire che mai nulla è perduto!

Lexy

 

lunedì 2 settembre 2019

Ricordi di cadute e ossa



Che dire BuliMia cara,
Mia strada tortuosa, dissestata, buche nascoste dove inciampare e sassi dove sbucciarsi le ginocchia. Cicatrici da indossare in un corpo sempre troppo grande per me. E ancora una volta mi ritrovo in pedi, tumefatta, arrabbiata; molto, molto arrabbiata. E non passa giorno che io non ti pensi, mentre mi asciugo la faccia allo specchio al mattino, dentro i miei passi, attenta a non inciampare ancora.
E ora come allora scriverti fa così tanto male, fa male al cuore, alla testa, allo stomaco, brucia in gola come il reflusso. In 18 anni non mi hai mai lasciata sola, nemica fedele.
Me li ricordo gli psicofarmaci, e tu? Andavamo al liceo. Me lo ricordo il mio sorriso stampato e la rabbia dentro, dietro. Che cos’hai da sorridere? Qui non c’è niente da ridere. Qui c’è da piangere, da urlare, da disperarsi. Qui c’è da soffrire e tu ridi. E io rido.
Mi ero convinta di averti superata, di aver dimenticato tutti questi ricordi e il dolore che si portano dentro. Sbagliavo. Impolverati, ammucchiati comeossa in una fossa, sono gli scheletri nel mio armadio. E li riconosco tutti, uno per uno e li ricompongo come un grande puzzle.
Me lo ricordo il ricovero a Pavia, dicembre 2007. Un mese in clinica, specialisti di ogni genere a rovesciarmi come un calzino, a insegnarmi come avrei dovuto vivere, mangiare, muovermi, senza poter uscire, lontano da casa, sola. Ricordo che fuori era freddo e spesso c’era la nebbia, ricordo che il giorno di Natale vennero a trovarmi mamma e papà e potemmo fare finta di essere al ristorante, ricordo lo sforzo per sembrare felici.
Questo femore va con questo bacino, in fondo a questo rachide... e pian piano uno scheletro prende forma.
Ricordo il palloncino intragastrico, il B.I.B. Rovereto 2010, le complicanze dell’intervento, e il virus intestinale.  Persi quasi 10 chili in quei 10 giorni, poi non ne persi quasi più. E tu lo sai il perché Mia cara, vero? La mia abilità nell’eludere il sistema di sorveglianza di quel corpo estraneo, poche quantità, frequenti, semiliquide.
Ricordo il senso di colpa quando la Dietista del centro per i disturbi del comportamento alimentare di Ravenna mi dimise, dopo il fallimento del B.I.B, avevo 26 anni. Ricordo quando mi disse “Abbiamo provato tutto il possibile, sei diventata grande, non possiamo più fare niente per te.” Di quella frase ricordo il tono, e non mi ferì la dimissione, il senso di abbandono, no. Mi ferì la sua tristezza, credo che quel medico, ma prima di tutto quella donna che mi aveva vista fallire per nove anni, credo che lei stesse in qualche modo soffrendo con me.
E poi qualcosa è cambiato. Nel momento in cui mi sono sentita sola con te, allora ho cominciato a guardare la strada. Ho camminato un passo alla volta, pian piano ho alzato la testa e iniziato a conoscermi, riconoscermi, scoprirmi e ricostruirmi. Quello che ora so per certo Mia cara, è che io esisto e resisto. Nel mio cammino ho avuto la costanza di non mollare mai la psicoterapia, maniglione di sicurezza. Dovevo vedere il tuo viso e non solo quel ghigno incappucciato che per anni mi ha spaventata. Dovevo guardarti negli occhi per riconoscervi i miei.
E ora che ho disegnato una mappa, che riconosco i sassi, le buche, ora che non sono più quella che ero e che non puoi più farmi così tanto male, resta. Resta perché quelle ossa ammucchiate sono scheletri interi e sotto la luce degli occhi aperti non fanno più tanta paura. Resta per ricordarmi quei giorni, non come una tortura ma come una vittoria. Resta perché io ho intenzione di restare a ridere, ma a ridere davvero.

F. C.