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mercoledì 24 marzo 2021

 Il diritto di essere ciò che sono. Xheka (Giona)

Sono nata in Albania il 2 agosto del 1996 e, attorno agli anni 2000, sono arrivata in Italia. Quando raggiunsi il Trentino, avevo all’incirca 4 anni e mezzo. 

I miei genitori, in particolare mio padre, si sono trasferiti in Italia un po' per i problemi economici che il Paese stava attraversando all'epoca ma soprattutto per le mie difficoltà. Da tempo infatti, i medici, avevano già prospettato la mia situazione e proprio per questa ragione hanno pensato di emigrare. Naturalmente questo trasferimento benché sofferto fu portato avanti con coraggio e forza: infatti fin da quando ero in Albania, si sapeva che avrei avuto dei problemi alla vista, perché già all'epoca ci vedevo poco. Una volta arrivata in Italia, in seguito a un lungo pellegrinaggio fra innumerevoli medici, abbiamo avuto la conferma che avrei perso il mio residuo visivo. Inoltre, una volta inseritami nella scuola dell'infanzia, gli insegnanti di sostegno scoprirono presto che avevo anche delle difficoltà uditive, ragione per cui invitarono la mia famiglia a consultare una neuropsichiatra infantile. Venne confermata la diagnosi: per questo motivo, decisero in primo luogo di assegnarmi una logopedista e, successivamente, di prescrivermi leprotesi acustiche. Ed è così che è andata avanti per molti anni, anche se per tutti gli anni delle scuole primarie, il mio udito andava a perdersi sempre di più, con conseguenti otiti e dolori alle orecchie.
La mia fortuna fu che un bel giorno, nell’estate del 2008, incontrai la Lega del Filo d'oro: associazione che in Italia si occupa delle persone sordocieche e con disabilità psicosensoriali. Grazie a loro, ho conosciuto nuove possibilità di comunicare, nonché ausili innovativi dedicati alle persone sordocieche. Fra questi ce n’era uno, a me molto caro ancora oggi: l’Impianto Cocleare. Uno strumento tecnico, che attraverso un intervento chirurgico, permette alle persone di recuperare le proprie capacità uditive. Detta così, sembra facile, ma in verità, ce  n'è voluto tanto di coraggio, per scegliere a 12 anni di ricominciare da capo a sentire; anche perché, ci sono voluti circa 6 anni per riuscire a sentire in maniera "normale”, o comunque come sento oggi. E' comunque un percorso di riconquista del proprio corpo, accettando una realtà che indubbiamente è cambiata da quel giorno. Una scelta molto grande per una bimba che diventava donna: forte e fragile allo stesso tempo. Un passaggio davvero molto importante: chi ci sta accanto a volte dà per scontata una scelta che invece non lo è. Arriva persino a dimenticarsi che si tratta, appunto, di una scelta: quella di sentire in un altro modo, gettando il cuore oltre l'ostacolo, aiutati dalla tecnologia seppure con i suoi limiti. Una scelta di cui sono felice, ma che di tanto in tanto mi trovo a ponderare quando alla fine di una giornata più pesante delle altre, mi trovo con un forte mal di testa ma incapace di rendermi conto cosa non vada, fino al momento in cui decido di disconnettere l'Impianto, per ritornare libera in un mondo silenzioso che ho imparato a poco a poco a fare mio. 
Voi, vi chiederete: "ma cosa c’entra tutto ciò col disturbo alimentare? ". La verità è che purtroppo c’entra, e c’entra dolorosamente. Questo perchè le mie difficoltà sensoriali, hanno in parte contribuito, per via di una sindrome metabolica rara (la sindrome di Alstrom) all’esordio del mio problema. La sindrome di Alstrom è una malattia che coinvolge non solo la vista e l'udito, ma anche altri organi interni. In particolare, il cuore, il fegato, i reni e i polmoni. Inoltre, chi è affetto da questa patologia, può riscontrare un esordio di diabete, nello specifico il diabete mellito di tipo 2. Chiaramente, ciascuno dei pazienti Alstrom, ha complicazioni differenti, in base alla propria conformazione genetica e biologica.Inutile ribadire che questa, come ogni altra patologia, sa colpire il cuore di chi la vive, cambiando il suo modo di pensare e di affrontare prima di tutto il rapporto con se stessi e con il proprio corpo. Inoltre, si tratta di una "malattia rara": e come immagino capiti a chi soffre di queste patologie, ci si chiede come sia successo a noi, quali siano le ragioni che ci hanno portato qui ora e come poter migliorare la nostra qualità di vita. riflessioni e spunti che passano dalle nostre consapevolezze, che tuttavia diventa doloroso e difficile trarre quando non ci sentiamo accettati, valorizzati per ciò che siamo. 
Ebbene sì, nel mio caso si sono manifestati molti dei sintomi della sindrome: all'età di 10 anni, e ancora prima di fare l'Impianto mi venne diagnosticato il diabete e col passare degli anni, anche per via delle complicanze metaboliche, si verificò un aggravamento delle mie funzioni epatiche.
La sindrome da sempre confonde le acque: ricordo quante volte i medici si sono soffermati davanti alle mie analisi, imputandomi la colpa dei valori che "non tornavano”, anche sapendo che per via della mia situazione, le mie funzionalità epatiche sarebbero comunque risultate alterate.In tutto ciò, l'esordio del disturbo alimentare si è manifestato molto presto: da che io ho memoria, ho sempre avuto un rapporto distorto col cibo. La verità è che da quando mi è stato diagnosticato il diabete, le cose si sono complicate molto, non solo perché dovevo seguire un'alimentazione specifica, ma anche e soprattutto, perché la mia diabetologa cercava di mantenere il mio peso sotto una specifica soglia. Ragione per cui mi valutava in base alla mia capacità di gestire il mio peso e l’alimentazione: se andavo bene significava che ero calata, se invece andavo male, significava che ero aumentata. Questo modo di valutarmi ha fortemente condizionato me e la mia famiglia: non è un caso che ogni volta che non seguivo l’alimentazione indicatami dallo specialista, i miei genitori mi giudicassero dicendomi che ero incapace e che stavo sbagliando. 
Questo modo di fare mi ha portato negli anni a sentirmi perennemente in colpa, nonché sbagliata. Non è un caso che ogni volta che mi alimentavo di ciò che non mi faceva bene, mi sentissi sbagliata, in colpa e non degna di amore. Sensazioni che ho percepito per tanti, tantissimi anni. Per anni, mi è stato insegnato che avrei potuto ricevere quell’amore solo e soltanto se fossi stata in grado di dare qualcos’altro in cambio. In un certo senso, dovevo essere la figlia perfetta, migliore, quella che non sbagliava mai, perché se avesse fatto diversamente, ossia in base a ciò che sentivo, ero sbagliata e non andavo bene. Per questa ragione, per un numero di anni infinito, ho fatto ciò che mi veniva detto senza esprimere il mio parere, perché pensavo che dicendo la mia, sarei stata abbandonata e rifiutata da tutti. Ancora oggi quando mi confronto con il mio ragazzo, spesso ho paura: paura di non essere accettata per ciò che sono o per ciò che penso, paura che di trovarmi ad un tratto da sola. Basta alzare la voce con me,  l'impatto emozionale di una giornata storta perchè io rischi di perdere tutte le certezze costruite a poco a poco con dolore e fatica. Forse ho corso il rischio di costruire dei rapporti non equilibrati con chi mi stava vicino, ma sono riuscita a superare a poco a poco queste paure: dimostrando prima di tutto a me stessa e  contro ogni previsione, che Giona è più forte. Più forte di tutto ciò che è stato. Anche della mia stessa paura. Come voi sapete, le origini del proprio comportamento, nascono da molto più lontano. Il mio rapporto distorto con l’alimentazione è infatti incominciato molto presto, da molto più lontano e dalle stesse origini: penso di aver avuto 5-6 anni quando, andando alle visite mediche, mi dicevano che ero più in sovrappeso rispetto ad altri bambini. Questa caratteristica del mio aspetto mi è stata ribadita tante, troppe volte, quando ero piccola, persino dagli stessi insegnanti di sostegno. Sì, nessuno non perdeva occasione di ribadirmelo, come se essere più robusti fosse una vergogna, qualcosa per cui sentirsi in colpa, sentirsi in difetto, in un certo senso sbagliati. Come se questa caratteristica fosse la cosa più importante: l'unica che mi poteva definire. Come se a nulla valessero tutti i miei sforzi.Purtroppo sì: il mio sentirmi “sbagliata”, “non degna d’amor” iniziò già in quel periodo della mia vita. Ma il colpo di grazia lo ebbi a una visita medica. Sì, è stato proprio dalle persone che avrebbero dovuto tutelarmi, proteggermi e curami che mi sono sentita maggiormente ferita: erano i tempi in cui i miei genitori stavano ancora cercando di comprendere la mia condizione, ragione per cui i medici mi sottoponevano a  innumerevoli accertamenti sanitari. Fra questi, ve ne era uno in particolare che mi ha pesantemente condizionato l’esistenza: erano gli anni in cui non si sospettava minimamente la sindrome attuale, sipensava che fosse un’altra malattia rara. Ragione per cui le analisi e gli studi a cui mi sottoponevano erano tanti, troppi forse, per una bambina di quell'età. Una bambina così sensibile. Fu così che un bel giorno, arrivata all’ospedale di Padova, dove mi seguivano per i miei problemi di vista, mi accolsero due medici: ancora oggi non ho idea se fossero delle ricercatrici o se invece fossero dei medici che volevano dei dati specifici sulle mie forme corporee. Ragione per cui decisero di “misurarmi” da capo a piedi: non tralasciarono nessuna parte del corpo, si spinsero anche ad analizzare ogni parte della mia intimità dinanzi ai miei genitori. Nessuno disse nulla, nessuno obbiettò qualcosa. Io chiaramente non ero nelle condizioni di poter scegliere, o comunque non mi diedero questa possibilità. Purtroppo, ancora oggi, sono allo scuro delle ragioni per cui mi fecero quella visita, anche perché non riesco a parlarne, se non in situazioni molto particolari, o quando so che posso essere capita. Quanta sofferenza mentre scrivo queste parole: come scalare una parete di dolore, di ricordi e di silenzi: le lacrime e le paura di perdermi.Non sono riuscita a fare domande e figuriamoci ad ottenere risposte quindi.Ero disorientata: non riuscivo a fare chiarezza dentro di me e quindi a chiederne a chi mi stava vicino. Fatto sta che quella visita medica me la fecero e questo mi ha segnato profondamente, mi segna ogni istante della mia vita. 
Per anni ho desiderato di essere perfetta, la migliore, per cancellare quel dolore, ma soprattutto non sopportavo quando mi si sottolineava una mia caratteristica fisica. No, non riuscivo a sopportarlo, ancora meno se lo si faceva per aiutarmi a gestire la mia salute: erano diventati insopportabili anche i medici, perché sembravano coalizzati con i miei genitori, un po’ come per dirmi: “sei tu quella sbagliata, quella che deve cambiare e che deve apparire  - perfetta – agli occhi di tutti”. Ho cominciato così a distruggermi, per punire me stessa e gli altri: un dolore sordo, lui sì che era davvero sordo.Per anni, ancora oggi, guai se sono disordinata, se appaio con una macchia sui pantaloni, o se per esempio ho un calzino di un colore diverso: sembra essere l’immagine ciò che mi caratterizza e non una mia specifica caratteristica. Come fossimo tutti prodotti sugli scaffali del supermercato della società: e io dovessi fare attenzione alla mia etichetta. Quanto può ferire categorizzare e schematizzare le vite delle persone, come non avessimo un cuore. Per quanto tempo mi è stato imposto di apparire come gli altri mi avrebbero voluto e non come invece ero e sono VERAMENTE. Come se si volesse fare di me ciò che non potevo e non volevo essere: non lasciandomi spazio di essere me stessa e scegliere liberamente chi avrei voluto essere un giorno.
Questo negli anni mi ha scavato dentro profondamente e mi ha fatto molto soffrire, perché in un certo senso, non ho mai avuto IL DIRITTO DI ESSERE CIò CHE SONO, ma soprattutto di essere considerata per ciò che so fare e non fare, oppure per quello che do o meno agli altri. In un certo senso, per quelle che sono le mie capacità, risorse, potenzialità e non solo i miei limiti. In definitiva, ci ho messo tanti, troppi anni, per capire che non sono solo un “problema, ma anzi, sono molto molto di più di quel problema. Naturalmente, acquisire queste consapevolezze mi è costato molto caro, perché se è vero che per affrontare problematiche come queste ci vuole tanto tempo, è anche vero che il mio corpo, sempre più urla aiuto: vuole essere lasciato in pace in un certo senso, ne soffre tantissimo. Infatti come voi sapete, questi mali nascono dalla mente e si estendono al corpo. E sì, quel corpo per anni stracciato, maltrattato, ora chiede fortemente, forzatamente, AIUTO. È un grido che da tanto, troppo tempo cerca di farsi sentire dai famigliari e dai medici che mi seguono, ma purtroppo nessuno è riuscito ad ascoltarlo. Tutti mi dicono che sono "normo peso", che non ho alcun problema, che per salvaguardare la mia salute dovrei gestire la mia alimentazione, ma nessuno che mi aiuti concretamente. Tutti pensano che la forma del controllo sia quella ideale per aiutarmi: la verità è che più mi si controlla, più si fa peggio, perché io faccio l’esatto contrario. Insomma, più si va avanti, più si fa fatica a gestire la situazione: soprattutto dal punto di vista medico. E, quando provi a dire che la situazione è grave, nessuno, nemmeno lo psicologo che ti segue da tempo, lo riconosce in quanto tale: ma ciò che è peggio è che quando provi a contattare il tuo Centro Regionale per i Disturbi alimentari, si dileguano indirizzandoti ad un centro per la cura dell’obesità. In un certo senso ti senti sballottare a destra e manca, tuttavia non ricevendo alcuna risposta chiara e specifica che ti permetta di intraprendere finalmente un percorso di cambiamento e cura, un percorso che tu possa sentire il tuo. Ciò che è ancora più grave però, è che nemmeno i famigliari riconoscono che hai un problema: no, per loro il tuo è un capriccio, un comportamento che puoi cambiare. Quando gli dici: “forse dovrei levare i carboidrati per un paio di settimane, per vedere se sto meglio”, mi viene detto: “ma sai, mica è difficile”, quando loro sono i primi a non riuscirci. Il bello è che non è finita qui: ogni volta che cerchi di far rispettare i tuoi diritti, invece che risponderti su quel tema/argomento, ti dicono: “guarda che pancia hai”. Un commento che   ferisce, perché in un certo senso, anche quando provi a fare del tuo meglio, la frustrazione aumenta, perché per loro non fai mai abbastanza. 
Naturalmente, non dico che io faccia abbastanza, ma penso di stare facendo ciò che posso e che riesco, cercando di mettere insieme cuore e corpo, che a volte sembrano prendersi a pugni a vicenda. In base al periodo ci riesco più o meno, ma non penso che colpevolizzarmi sia la soluzione giusta. Non credo di riuscirci sempre, ma penso di provarci. La verità è che anche quando ci  provo, per i mei genitori, in particolare per mia mamma, è come se non stessi mai facendo abbastanza. In un certo senso, anche se so che non è così, è come se mi si dicesse: “Giona, tu non sei abbastanza per noi”, o ancora peggio, come se mi si facesse sentire di peso. Una sensazione che quando si ha una o più di una disabilità, si percepisce anche al di là del proprio disagio col cibo. Naturalmente per via di innumerevoli dinamiche disfunzionali, negli anni i mei genitori si sono chiesti le ragioni del mio problema, ma io non riesco a spiegargliele, anche perché nemmeno io penso di averle capite perfettamente; ma anche questo, mi risulta, molto difficile da far capire. Se io ho fatto il mio percorso di crescita, ricorrendo anche alla psicoterapia, i miei genitori, in particolare mia madre, non si sono mai fatti aiutare. Ragione per cui mi risulta molto difficile dialogare con loro. Qui, purtroppo è molto difficile dialogare, perché invece che confrontarci, ci si scontra. Motivo per cui io vivo il confronto con paura e angoscia, faticando molto in certe occasioni a esprimere con tranquillità il mio punto di vista. Ragione per cui, da un po' di tempo a questa parte, ho deciso di uscire dal contesto famigliare: chiaramente non è l’unica motivazione per cui porto avanti questa scelta, ma è certo una delle tante. Sono infatti arrivata alla conclusione che io debba andare avanti con le mie gambe, facendo il mio percorso di crescita e cambiamento in autonomia, con delle persone che comprendano di più le mie difficoltà e che mi giudichino meno per quello che sono e, soprattutto, per le scelte che intendo portare avanti. Io sono fatta di grida nel silenzio, sono fatta di frasi che potrebbero quasi sembrare normali: non fosse che sanno essere scosse di terremoto nelle vite di chi mi conosce. sono tanto tanto amore: una pioggia ininterrotta di amore, di risate, di lacrime, di domande, di risposte. Così viva, un fiore cresciuto nel cemento. Non so più come chiedere aiuto ma non per questo ho smesso di farlo, di credere che il domani sarà un giorno diverso da costruire, migliore. Ho imparato duramente a guardare la realtà anche quando fa paura, e so fare qualcosa che purtroppo è stato fatto poco con me: guardare le persone e vederne le potenzialità, vedere ciò che hanno da dare, che sono, che possono essere, che saranno. Ho saputo in definitiva, essere e trovare le risposte alle domande di chi soffoca nel silenzio: dare tutto ciò che ho, il mio cuore.

 Xheka Haxhiraj

 

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