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giovedì 29 luglio 2021

Per 'donare' occorre prima perdonarsi - Laboratorio del 27 Luglio.

Cosa accade quando una figlia che soffre di una malattia del comportamento alimentare rientra a casa dopo una vacanza trascorsa con gli amici e il fidanzato? Può succedere che ritorni entusiasta, felice e spensierata per le esperienze vissute, ma purtroppo accade di frequente che ritorni più impaurita, più insicura, con il bisogno impellente di riprendere in mano il controllo apparentemente perso. 

I genitori in questa situazione si rivedono piombare davanti agli occhi il sintomo nella sua modalità piu’ visibile, suscitando spesso la paura e la rabbia per essere costretti a convivere con quelle immagini che vorrebbero cancellare dalla propria vita. Purtroppo quando c’è una sintomatologia quale la malattia del comportamento alimentare, è inevitabile il dover convivere con essa. Questo non significa una convivenza a vita, poiché da queste malattie, ci teniamo a sottolinearlo, si guarisce. Spesso i genitori nutrono aspettative di guarigione a breve termine, ed è importante chiarire fin da subito che il percorso di cura richiede un tempo molto lungo. Un percorso che coinvolge non solo la persona sofferente, ma l’intera famiglia, poiché è impossibile non rimanere influenzati dalle dinamiche che la malattia mette in
atto. Ritornando all’episodio del rientro a casa dei figli dopo una vacanza trascorsa con gli amici, la famiglia si trova ad affrontare frequentemente situazioni difficili da gestire. Il controllo eccessivo verso il cibo, la rabbia, l’aggressività, l’ autolesionismo, l’ iperattività’. I genitori sono impreparati a tali manifestazioni: “ Ma come? Sei andata in vacanza, ti sei divertita, tanto da non avermi nemmeno chiamata, e ora torni, nervosa, aggressiva, e mi tratti come se fossi uno zerbino?” Il sentirsi trattata come uno zerbino è il sentimento che una mamma ha provato in maniera molto intensa in questi giorni. Il risentimento, il dispiacere, la frustrazione nel rendersi conto che la figlia si rivolge a lei solo quando ne ha strettamente bisogno, tanto è vero che in vacanza non si era nemmeno degnata di farle una telefonata per dirle come stava. Questo atteggiamento ovviamente l’ha ferita molto perché ha sentito di non avere alcuno spazio nella vita della figlia. In realtà non è che una percezione personale perché ciò che i figli provano veramente non lo possiamo mai conoscere fino in fondo. Ma una cosa è certa: ogni figlio ama il proprio genitore, anche se la malattia si diverte a nasconderlo riflettendone una manifestazione distorta. 

Una ragazza ha raccontato quanto sia stato sempre difficile per lei dimostrare il suo amore verso i genitori. Ricorda ancora le tante sedute di terapia dedicate al suo essere bloccata nell’esprimere i suoi sentimenti di affetto, cosa che invece non accadeva nelle manifestazioni di rabbia. L’aggressività, infatti, è un canale attraverso cui si comunica tutto ciò che è congelato dentro di se’ e che nasconde una disperata richiesta di aiuto. E sulla richiesta di aiuto c’è un passaggio importante da focalizzare. Accade frequentemente che i figli chiedano la collaborazione dei genitori per compiere anche semplici commissioni come ad esempio la compilazione di pratiche burocratiche riguardanti il lavoro o la scuola. Laddove poi il figlio appare quasi menefreghista e rinunciatario, viene d’istinto rispondergli “ Se chiedi aiuto e poi non lo accetti allora arrangiati”. Qui c’è il passaggio importante da non trascurare. Un passaggio che sembra banale ma che così banale non è. Rispondere “arrangiati” ad una richiesta di aiuto non accolta, vuol dire bloccare sul nascere ogni tipo di comunicazione e rapporto. Non dimentichiamo che la malattia del comportamento alimentare cancella la capacità di relazionarsi con gli altri. È come un computer cui vengono cancellati tutti i programmi e quindi necessita andarli a resettare. Tu puoi pigiare il tasto quanto vuoi, ma se manca la riprogrammazione, l’avvio non avviene. Ed è inutile che ti arrabbi. Lo stesso avviene con la malattia del comportamento alimentare. Si è “cancellata” la capacità di comunicare e bisogna andare a re-impostare, re-imparare tale modalità. Riferendoci alla situazione precedente, anziché rispondere “arrangiati”, si può domandare che cosa è che vieta di affrontare quella situazione; di cosa si ha paura. È facile che il genitore non riceverà in cambio alcuna risposta; anzi, addirittura potrebbe sentirsi dire di non impicciarsi. E qui sta il passaggio importante. Nel momento in cui si chiede aiuto, occorre essere consapevoli che bisogna accettare anche la relazione con l’altro. L’interessamento del genitore non è invadenza, non è impicciarsi ma è rispondere in maniera coerente alla richiesta di aiuto ricevuta. Mettere in evidenza questo concetto permette ai figli di elaborare la loro modalità dì risposta e soprattutto, a riflettere sulla presenza e sulla partecipazione dell’altro. Significa resettare quel programma cancellato, in modo tale che possa riavviarsi ogni qualvolta lo si vada a richiamare. 

È importante che il genitore si protegga da queste dinamiche della malattia. E come fare? Occorre divenire consapevoli di ciò che crea sofferenza, rabbia, frustrazione. E come di fa? Parlandone. Il laboratorio serve a questo: permettere ai genitori di esprimere all’esterno ciò che crea disagio e sofferenza. Sappiamo bene quanto sia indispensabile dare voce al proprio mondo interiore. Tutto ciò che è reso silente, si ingigantisce perché non riesce a trovare una spiegazione. Il poterne parlare aiuta a rendere visibile e ridimensionare ciò che preoccupa e allo stesso tempo permette di acquisire strumenti per poter fronteggiare in maniera diversa ciò che accade. Risulta utile ritagliarsi un proprio spazio in cui rifugiarsi ogni qual volta se ne senta il bisogno. Può essere leggere un libro, fare una passeggiata, dedicarsi a qualcosa che fa piacere, ma anche semplicemente alzare lo sguardo e osservare il cielo, perdendosi in esso.

Un altro concetto importante su cui riflettere riguarda il perdono. A volte chi ha una malattia del comportamento alimentare non riesce a perdonare i propri genitori per delle mancanze cui sentono e credono di aver sofferto. E questo li porta a inscenare una costante guerra che si consuma nell’ambiente familiare. Ovviamente queste tematiche devono essere analizzate in un percorso terapeutico, ma anche il genitore può fare qualcosa. Come? Partendo da se stesso. Cominciando a perdonarsi per tutte quelle colpe che ingiustamente si attribuisce nei confronti dei figli. Pensiamo all’etimologia della parola perdonare. Deriva da “per - donare”. Quindi implica un dono. Un dono che è racchiuso dentro a ognuno di noi e che richiede di essere liberato dalle grinfie della rabbia. Un genitore che si perdona insegna a sua volta ai figli come si fa a perdonarsi. E quando un figlio si perdona, gli si apre innanzi la strada verso la ricerca di se stesso, verso il desiderio di essere aiutato a riprendersi quella vita tenuta in ostaggio dalla malattia. 


Frase della settimana : PER “DONARE” OCCORRE PRIMA PERDONARSI

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