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martedì 8 novembre 2016

Riflessioni


Capitano notti, notti insonni, in cui ci si ritrova soli, a piangere con i propri mostri, impreparati ad affrontare le paure che questi servono su un piatto d'argento. Hanno volti, ridisegnano gesti e sussurrano, urlano, parole che hanno ferito. E chiedono lacrime, in continuazione, tolgono il fiato, fermano il tempo e i pensieri in attimi eterni, interminabili, di sofferenza.

Sono notti in cui ti fai tante domande - su di te, sulle persone intorno a te, sulla vita, sulla morte - e nessuna risposta sembra riuscire a soddisfarle. Pensi che vorresti accanto qualcuno, qualcuno con cui condividerle, qualcuno a cui raccontare quello che ti passa per la testa, qualcuno a cui stringere la mano nei momenti di difficoltà, qualcuno che stringa la tua di mano quando la strada si fa ripida, qualcuno che ti sussurri 'va tutto bene' mentre ti asciughi le lacrime, qualcuno che ti dica che sei bella, anche quando piangi. Pensi che vorresti, prima di tutto, semplicemente sentire di poter contare su te stessa anche nel silenzio della notte buia.

E sono notti in cui rifletti che ogni giorno è diventato per te una nuova sorpresa, perché quando ti sei disabituata a sentire, ad ascoltare, le tue emozioni e ti stai rieducando a farlo, basta un niente per scoppiare a ridere o a piangere, basta un abbraccio per sentirti accolta dal mondo intero, basta un sorriso per ricordarti che c'è luce, vita, intorno a te. E quel sorriso, anche solo un accenno, che credevi di aver smarrito per sempre, è tornato anche sul tuo volto, che tante volte hai visto riflesso nello specchio, segnato dalle lacrime, sconvolto dalla malattia. Lacrime versate sul sedile di un treno, con la musica a tutto volume nelle orecchie, o accovacciata in un angolino nel silenzio della tua stanza, o ancora, su una bilancia, quasi fosse la tomba della tue fragilità, dei tuoi errori. Lacrime per dare forma, concretezza, al dolore rinchiuso dentro quel corpo fragile che la malattia avrebbe voluto strapparti via, insieme a tutto il resto; affetti, spensieratezza, divertimenti. Lacrime che sembrano essere lì a ricordarti che ancora non hai pianto abbastanza la sofferenza che ha segnato il tuo vissuto, che ancora non hai ne hai attraversata abbastanza per convincerti che anche tu, come qualunque altro essere umano, un po' di rispetto e di amore li meriti, che anche tu puoi concederteli.

Sono le maschere, i mille volti della malattia a gettare nello sconforto, a creare confusione, e nella confusione diventa difficile anche riconoscere cosa merita fiducia e cosa invece no, cosa ti appartiene e cosa invece appartiene alla malattia. Nella confusione diventa difficile riconoscersi, perché nello sforzo di scorgere cosa quelle maschere nascondono dietro per tentare di ricomporle in un'identità, si riesce a vedere soltanto un buco nero, che incute paura. Così, nella foga di seguire i fantasmi della tua mente, quei mostri che ti hanno strappato la dignità di giovane ragazza, hai perso tutto, hai perso di vista te stessa, ti sei persa. E soprattutto, hai perso tempo, un tempo prezioso, quello della giovinezza, che non ti sarà mai più restituito.

Dopo anni e anni di stasi, di immobilità, paralizzata dalla malattia, solo ora mi accorgo di quanto tempo, di quanta vita, la malattia mi abbia privata. Ho sempre respinto l'accusa, spesso rivoltami, di non avere tempo per gli altri, rivendicando che erano gli altri a non avere mai tempo per me. Ho capito che il problema, in realtà, stava a monte: ero io prima di tutto a non avere tempo per me, perché stavo tentando disperatamente di fuggire da me stessa. E se non avevo tempo per Sandra, come potevo averne per gli altri? E come potevano gli altri averne "in abbondanza” anche per me? Trascinata in una corsa frenetica, senza soste, nemmeno di fronte ai segnali di 'stop', ho bruciato tante tappe, ma con esse anche tante possibilità di vita, tante occasioni per vivermi la mia adolescenza, i piaceri e i divertimenti della mia giovane età. Ho sempre fatto gli straordinari, probabilmente nell'illusione che con questo agli occhi degli altri potessi risultare stra-ordinaria, cioè non un comune mortale dotato di ragione e sentimenti, ma un essere capace di spingersi oltre, oltre l'ordinario, e perciò degno di lodi e attenzioni. Come se l'unico modo per sentirsi speciali fosse spingersi verso quell'oltre, verso gesti eroici, non alla portata di tutti; come se l'unico modo per sentirsi "vivi" fosse ribellarsi ad un ordine prestabilito, costi quel che costi, anche la vita. Così mi era stato tramandato dalle esperienze vissute in passato. Strada facendo, è arrivato un momento in cui mi sono resa conto che non aveva più senso rimandare: è arrivato il tempo di dirottare pensieri, energie e sforzi altrove, verso un altro 'oltre', oltre la malattia, nonostante ricordi amari, esperienze traumatiche e vissuti dolorosi richiedono tanto, a volte davvero tanto, tempo per essere digeriti.

Il paradosso della malattia vuole che sia più facile scontrarsi, dare contro, anziché venirsi incontro, evitarsi piuttosto che confrontarsi, nascondersi dietro un piatto vuoto e rifugiarsi nell'isolamento, finendo così per non lasciare entrare nemmeno chi sa accettare le nostre debolezze e vorrebbe provare, anche solo provarci, a sedersi al nostro fianco a tenerci compagnia, nell'attesa che la furia della tempesta si esaurisca e che il sole torni a splendere. Eppure un tempo in cui tutto questo non esisteva, c'è stato. E allora deve esistere anche una possibilità per riscoprirlo. Forse per riscoprire la spontaneità di quei gesti così naturali, così umani – una cena in compagnia, la sincerità di un sorriso, il conforto di una parola amica - bisogna solo ritrovare le 'vecchie, sane' abitudini di un tempo. Forse è solo questione di riabituarsi un po' alla volta al calore della luce, al piacere del contatto umano, alla forza della condivisione, per scoprire che ci si può raccontare agli altri senza maschere, così per come si è, semplicemente se stessi. 

Sandra

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