Cara anoressia,
non avrei mai pensato di scriverti.
Scrivere una lettera significa presupporre un destinatario diverso da chi scrive, dunque il mio atto significa stabilire, una volta per tutte, che io e te non siamo la stessa cosa.
Certo devo ammettere che sei stata parte di me, per un tempo forse maggiore di quello che sono disposta ad accettare, tuttavia, cara anoressia, tu non sei me e io non sono te.
Ai miei occhi hai sempre avuto l’aspetto freddo, rigido e categorico dei numeri: quando pensavo di essere te credevo di essere il mio peso, i centimetri delle mie cosce, la mia altezza, il mio numero di matricola, i miei voti universitari, il numero di amici su Facebook; su tutto questo ero convinta di poter avere il controllo, come un matematico controlla i calcoli attraverso un’equazione, credevo di avere abbastanza forze ed energie per orientare i parametri della mia vita.
Orientarli all’eccellenza.
Volevo essere speciale e tu, anoressia, mi aiutavi in questa illusione d’onnipotenza, eri una malattia che mi faceva credere di essere più vicina alla perfezione; sfoggiavo fiera i tuoi segni su di me, i polsi affusolati, le taglie xs ed i “no io non ho fame ora, non ho bisogno di mangiare” erano stendardi che sventolavo per rendere manifesta la mia vittoria, il mio controllo assoluto, il mio essere migliore di chi un controllo non riusciva a imporselo.
Poi gli stendardi sono diventati lacci troppo stretti e l’onnipotenza è diventata una corsa estenuante che non avevo, tuttavia, il coraggio di interrompere.
Un giorno, in ospedale, mi sono chiesta se essere perfetti fosse davvero così importante.
Ho guardato il cielo e mi sono chiesta se nel desiderio di essere perfetti non fosse invece abbastanza esser-ci, qui ed ora.
Ci è voluto tanto tempo, forse il lavoro non è ancora finito, ma ho preso quegli stracci, vecchi stendardi di vana gloria, e ne sto cucendo degli abiti: non hanno taglia né misure, non stringono e non sono perfetti, ma sono le mie insicurezze e quindi voglio loro bene, le indosso senza vergogna e senza vanto, cercando solo di armonizzarle alla mia persona.
Tu eri il bottone troppo stretto che faceva sì che loro mi soffocassero, ma adesso ti ho scucita via, non fai parte del mio abito.
E dunque, cara anoressia, posso scriverti questa lettera con serenità, perché la mia firma in basso è diversa dal tuo nome lassù, nel posto dell’intestatario.
Il mio nome simboleggia il mio essere speciale, non tu.
Eleonora
non avrei mai pensato di scriverti.
Scrivere una lettera significa presupporre un destinatario diverso da chi scrive, dunque il mio atto significa stabilire, una volta per tutte, che io e te non siamo la stessa cosa.
Certo devo ammettere che sei stata parte di me, per un tempo forse maggiore di quello che sono disposta ad accettare, tuttavia, cara anoressia, tu non sei me e io non sono te.
Ai miei occhi hai sempre avuto l’aspetto freddo, rigido e categorico dei numeri: quando pensavo di essere te credevo di essere il mio peso, i centimetri delle mie cosce, la mia altezza, il mio numero di matricola, i miei voti universitari, il numero di amici su Facebook; su tutto questo ero convinta di poter avere il controllo, come un matematico controlla i calcoli attraverso un’equazione, credevo di avere abbastanza forze ed energie per orientare i parametri della mia vita.
Orientarli all’eccellenza.
Volevo essere speciale e tu, anoressia, mi aiutavi in questa illusione d’onnipotenza, eri una malattia che mi faceva credere di essere più vicina alla perfezione; sfoggiavo fiera i tuoi segni su di me, i polsi affusolati, le taglie xs ed i “no io non ho fame ora, non ho bisogno di mangiare” erano stendardi che sventolavo per rendere manifesta la mia vittoria, il mio controllo assoluto, il mio essere migliore di chi un controllo non riusciva a imporselo.
Poi gli stendardi sono diventati lacci troppo stretti e l’onnipotenza è diventata una corsa estenuante che non avevo, tuttavia, il coraggio di interrompere.
Un giorno, in ospedale, mi sono chiesta se essere perfetti fosse davvero così importante.
Ho guardato il cielo e mi sono chiesta se nel desiderio di essere perfetti non fosse invece abbastanza esser-ci, qui ed ora.
Ci è voluto tanto tempo, forse il lavoro non è ancora finito, ma ho preso quegli stracci, vecchi stendardi di vana gloria, e ne sto cucendo degli abiti: non hanno taglia né misure, non stringono e non sono perfetti, ma sono le mie insicurezze e quindi voglio loro bene, le indosso senza vergogna e senza vanto, cercando solo di armonizzarle alla mia persona.
Tu eri il bottone troppo stretto che faceva sì che loro mi soffocassero, ma adesso ti ho scucita via, non fai parte del mio abito.
E dunque, cara anoressia, posso scriverti questa lettera con serenità, perché la mia firma in basso è diversa dal tuo nome lassù, nel posto dell’intestatario.
Il mio nome simboleggia il mio essere speciale, non tu.
Eleonora
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Testo di Eleonora Arcolin, secondo classificato ex aequo al concorso "Racconti affAMATI" indetto dall'Associazione Mi Nutro di Vita in occasione dell'VIII Giornata nazionale del Fiocchetto Lilla (15 marzo 2019).
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