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venerdì 24 luglio 2020

Il silenzio parla - Laboratorio 22 luglio 2020


Anche stasera il laboratorio ha portato alla luce argomenti importanti e profondi. Abbiamo iniziato con la testimonianza di una mamma. Non è facile riequilibrare la convivenza quando i propri figli/e hanno terminato il percorso in struttura e fanno il loro ritorno a casa. I momenti più critici sono sempre quelli legati al pranzo e alla cena, soprattutto quelle situazioni in cui li si vede recare in bagno. Subito si ricristallizzano le vecchie paure sull’eventualità che la malattia possa ripresentarsi con tutta la sua intensità e voracità. Allora ritorna utile ripensare al fatto che per molto tempo malattia e guarigione camminano ancora insieme (concetto emerso nei laboratori precedenti).
Ora, provare paura è una condizione assolutamente normale, però è anche vero che non bisogna prestare l’attenzione solo su quegli aspetti legati alla malattia. Lo sguardo va posto innanzitutto sul percorso che nel frattempo si è fatto. Vostra figlia o vostro figlio sta ricominciando a uscire?
Sta iniziando a riprogettare una sua vita? Sta riprendendo i contatti con la propria cerchia di amicizie? Comunica i suoi stati d’animo? ... Sono questi gli aspetti su cui è importante rivolgere l’attenzione. La presenza ancora della malattia non deve creare l’ansia o il panico che ci si possa ricadere. Come più volte è stato detto, perché si possa comprendere le dinamiche che spingono ad adottare soluzioni non adeguate, occorre farne esperienza non solo a livello teorico ma anche e soprattutto rivivendone la pratica. Questo per far sì che si possa capire appieno che quella modalità non appartiene più alla propria identità e quindi la si può lasciare andare via una volta per tutte.
A questo punto c’è stato il racconto sulle nuove abitudini che si possono creare tra genitori e figli/e, come il giocare a carte a fine cena. Per una persona con un disturbo alimentare, questo non è così naturale come per una persona che non vive queste problematiche. Permettersi di occupare il proprio tempo in attività che sono altro da quelle connesse alla malattia sono una dimostrazione dell’importante percorso che i propri figli/e stanno compiendo. Qualsiasi attività che viene a distogliere da quelli che sono i rituali della malattia sono fonte di un cambiamento che non sono così scontati ne’ facili da mettere in atto. Come non è per nulla scontato alla domanda del proprio medico: “Ora hai capito cosa ti ha portato alla malattia?" Rispondere “Non è importante capire ciò che mi ha fatto ammalare quanto comprendere che cosa voglio io dalla mia vita ora”. Comprendere la direzione che si vuole dare alla propria vita è quel orientamento che
porta verso la guarigione. Capire le origini di un disturbo come quello alimentare è principalmente il compito di chi presta la cura, il quale deve saper accompagnare la persona che ne soffre a non rimanere focalizzato troppo sulle eventuali cause perché questo impedisce la vera trasformazione che inizia dal trovare un senso alla propria esistenza.
A questo punto è emersa la tematica su quanto conti la parte spirituale nella guarigione. Se esiste poi questa dimensione o se è un appannaggio di determinate ideologie. In realtà nessuno di noi è composto di un solo elemento. Tutti siamo fatti di corpo, mente e spirito. Ma spesso ci dimentichiamo di questa parte spirituale dandole poca importanza. In realtà, è proprio in questa dimensione che risiedono i simboli più profondi di noi. E non a caso, il disturbo alimentare comunica attraverso un linguaggio simbolico, difficile da interpretare. Spesso la persona che soffre di queste malattie vive una separazione col proprio corpo, come se questo non le appartenesse più. Il corpo diviene quel campo di battaglia su cui annullare ogni forma di percezione e comunicazione. Difficile cercare di spiegare attraverso la logica quella che rappresenta la spiritualità, è come cercare di svelare il segreto della vita imbrigliandolo dentro ad una etichetta razionale. Ognuno lo apprende attraverso la pratica del proprio vivere, sentire, essere.
Si è poi ritornati sul significato che può nascondersi dietro il giocare a carte poiché è venuto fuori che spesso i propri figli/e fanno questa esplicita richiesta ai genitori quando si trovano all’interno delle strutture terapeutiche. In realtà può accadere che si venga a creare nel rapporto genitore-figlio/a una sorta di disagio, imbarazzo, vergogna originatosi dalla presenza della malattia che ha portato a distorcere sia la relazione che la comunicazione. Il giocare a carte diviene allora quella forma di interazione che permette di reinserire timidamente i propri genitori in quello che è il loro mondo.
Anche questa volta non sono mancati i momenti di silenzio. Anzi. Tali momenti sono proprio indotti per permettere di raccogliere le sensazioni emerse dalle varie condivisioni. Il silenzio vuole essere uno strumento a cui affidarsi per trovare in esso quelle risposte negate da una mente troppo indaffarata e intasata. Il silenzio porta a ritrovare la parte più intima di se stessi. Un papà ha voluto condividere l’esperienza che sta vivendo con la propria figlia. Ogni giorno, si recano al bar a fare colazione insieme. All’inizio questi incontri erano basati principalmente sul non dirsi nulla. Questo papà, anche se inizialmente provava un netto disagio, ha voluto accogliere dentro di se’ quel silenzio per ascoltare cosa in realtà aveva da dirgli. Ed è successo che la propria figlia ha cominciato ad aprirsi e avviare una nuova comunicazione con lui. Questo avviene perché in realtà,
quando ci permettiamo di stare in silenzio in modo naturale, avviene che gli inconsci parlino tra di loro; e lo fanno attraverso un linguaggio che è sconosciuto alla coscienza. Un linguaggio che va al di là delle parole...e può condurre a riprendere quella comunicazione interrotta dalla malattia.
La frase di questa settimana non può che essere: Il SILENZIO PARLA.
 

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