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domenica 5 dicembre 2021

E' nella frattura che c'è la guarigione - Laboratorio del 30 Novembre.

 


Questa settimana c'è stata purtroppo l’ennesima drammatica notizia di una ragazza che non è riuscita a liberarsi dalla stretta della malattia del comportamento alimentare, ponendo fine alla sua vita. Molti genitori si sono domandati se sia giusto o meno condividere queste comunicazioni con le proprie figlie o figli che soffrono di queste patologie. Come sempre, non esiste una risposta valida e univoca per ogni situazione. Occorre valutare la persona che abbiamo davanti; ma, ancora prima, è indispensabile che i genitori stessi osservino cosa li spinge a voler condividere quella determinata storia.
Si spera forse che leggendola possa smuovere qualcosa dentro ai propri figli? Ci si aspetta che, vedendo l’epilogo di certe realtà, li esorti a smettere di fare quello che stanno facendo con il cibo e il loro corpo?
Purtroppo nutrire simili aspettative non porta mai a un buon esito, anzi, tali propositi vanno a stimolare ancora di più le dinamiche della malattia. È necessario che i genitori siano consapevoli che affrontare una tematica simile coi propri figli significa incamminarsi su un terreno minato. Va comunque sottolineato che questi argomenti non devono essere un tabù, anzi. Ma non bisogna cadere nell’errore di dare troppo spazio alla malattia, ovvero, non bisogna mettere in evidenza aspetti quali peso, comportamenti autolesionistici, cibo, ossessione per l’immagine corporea poiché si va a focalizzare l’attenzione solo sul sintomo, ponendo i figli in una condizione di confronto con i parametri della patologia, e questo certamente non li aiuta.

Quindi come ci si potrebbe approcciare? Mettendo ad esempio in atto il “gioco del mettersi nei panni di”... Mi spiego meglio. I genitori possono esprimere per primi le loro opinioni mettendo in evidenza non tanto il fatto in sè, quanto il carico emotivo che questa ragazza ha provato e che sta provando ora la sua famiglia, con lo scopo non di aspettarsi una qualche reazione da parte dei propri figli ma con lo scopo di aiutarli a comprendere le emozioni che una tale condizione suscita, sia in chi la vive direttamente sia in chi la vive indirettamente, come i familiari. Questo “ gioco del mettersi nei panni di”, può essere utile perché permette contemporaneamente di distaccarsi emotivamente dal proprio vissuto per comprendere il vissuto dell’altro e quindi aprirsi a un dialogo aperto libero dal non sentirsi sotto osservazione o sotto il carico di quelle aspettative citate in precedenza. Torno a ripetere che per poter mettere in atto tale proposito, è necessario che i genitori siano in grado di comprendere in che stato di animo si trovano e soprattutto, di non andare a sovraccaricare i figli della propria ansia, paura e desiderio della guarigione. 

A volte accade, soprattutto agli inizi, che la famiglia non riesca a tollerare la malattia, cercando così ogni espediente possibile per convincere i figli a smettere di avere quei comportamenti. Sappiamo che questo non è possibile, poiché i processi che portano alla sintomatologia alimentare sono molto complessi e profondi. I genitori spesso si autoaccusano di essere stati responsabili in qualche modo della malattia dei figli: disattenzioni, mancanze, severità, dare troppo o poco amore.....e la lista potrebbe andare all’infinito. In realtà le malattie del comportamento alimentare sono multifattoriali, quindi non basta una componente singola per far sì che questa sviluppi la malattia. Certo, i figli fanno la loro prima esperienza all’interno dell’ambiente familiare, ma poi crescono, cominciano ad andare a scuola, ad avere relazioni coi propri coetanei, a confrontarsi con diverse autorità che non sono più solo i genitori. Durante la crescita, ogni individuo forma inconsciamente un’immagine ideale di sè, che deve inevitabilmente venire a contatto con la propria identità. Quando l’immagine idealizzata di sè si trova a essere molto distante dalla propria identità, qualcosa si rompe drasticamente, andando in frantumi e facendo sorgere un forte senso di vuoto e angoscia, talmente forte da costringere la persona ad aggrapparsi a qualcosa che può prendere le vesti di una malattia del comportamento alimentare.
Così, attraverso le dinamiche del sintomo, si riesce a controllare e a cercare di colmare il senso di vuoto lasciato da quella frattura.

A volte accade che durante il percorso di cura, la persona che soffre della malattia del comportamento alimentare viva crisi importanti, che all’apparenza sembrano la portino di nuovo dentro alla sintomatologia. I genitori in questi casi sono disperati perché avevano cominciato a sperare nella guarigione e la ricaduta li destabilizza completamente. In realtà, per guarire occorre ridimensionare l’immagine ideale di sè per cercare di avvicinarla e farla poi coincidere con la propria identità. Per fare questo, occorre andare dove c'è stata la frattura, prendere i pezzi di quei frammenti e, come in un puzzle, cercare di ricomporre ciò che si è frantumato. Ovviamente, questo è molto faticoso, fa paura, e inevitabilmente si reagisce come la prima volta che ci si è trovati a sentire quell’angoscia, aggrappandosi alla malattia. Piano piano però, attraverso l’aiuto terapeutico, si comincia a ricostruire il puzzle...ogni volta sempre con meno paura...pezzo per pezzo...fino a ricomporre la frattura e trovare finalmente allineati l’immagine ideale di sè con la propria identità.

Questo fa capire il motivo per cui il percorso terapeutico di una malattia del comportamento alimentare sia così lungo, evidenziando quanto la sintomatologia alimentare occupi un posto paradossalmente essenziale per la sopravvivenza emotiva della persona. È fondamentale muoversi con molta sensibilità, rispetto, consapevolezza dei tempi della persona che sta soffrendo. Ovviamente, questa delicatezza terapeutica a livello psicologico decade in una condizione salva-vita, ma una volta ristabiliti i parametri biologici è importante che si usi un approccio accogliente, che sappia riconoscere quella frattura e il dolore che vi sta dietro. È dunque evidente che chi soffre della malattia del comportamento alimentare provi un profondo disagio, che si riflette in tutti gli ambiti, come ad esempio quello scolastico. Proprio su questa tematica si è accesa una importante discussione che verrà ripresa nei laboratori successivi. È emerso che spesso il contesto scolastico non è formato per comprendere e adattare adeguati piani di studio per chi soffre di una sintomatologia alimentare. Se di fronte a situazioni come può essere una separazione dei genitori, la ragazza o il ragazzo in questione viene affiancato da un insegnante di sostegno e inserito in un BES, ( Bisogni Educativi Speciali), in molte scuole non accade la stessa cosa per chi soffre di malattie del comportamento alimentare, ritenendo che queste non rappresentino un disagio reale ma siano una forma di capriccio, se non addirittura una scusa per non applicarsi nello studio. Dato che nel laboratorio ci sono molti genitori che sono inseriti all’interno del mondo scolastico, è sorta l’esigenza di approfondire queste problematiche, per cominciare a creare una rete che non vada a considerare solo la formazione di personale sanitario ma anchedi  personale scolastico per far sì che anche nelle scuole venga riconosciuta questa malattia e come tale possano essere applicati, senza pregiudizio e stigma, piani educativi adatti al disagio della persona che soffre di una malattia del comportamento alimentare. La scuola deve essere un luogo di inclusione e non di esclusione.


Frase della settimana: È NELLA FRATTURA CHE C’È’ LA GUARIGIONE

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